Uno dei tratti che caratterizzano la comunicazione in Italia, sia quella televisiva sia quella dei giornali, è la confusione dei generi. E forse non potrebbe essere altrimenti: sono destinati inevitabilmente all’autoreferenzialità un sistema televisivo senza concorrenza e quindi senza mercato professionale, e un sistema giornalistico senza editori, quindi senza giornali indipendenti e inevitabilmente con una selezione del personale giornalistico che non è basata sul merito e su considerazioni e valutazioni di tipo tecnico.
Così la Tv è diventata una marmellata senza soluzione di continuità, con “professionisti” intercambiabili (sempre gli stessi) e trasmissioni che si assomigliano tutte innanzitutto sul piano tipologico, per lo più un misto di varietà e talkshow. E conduttori che cantano e ballano, cantanti che conducono, politici che fanno spettacolo, divette che fanno le opinioniste, dibattiti politici fra giornalisti ed esponenti di partito, trasmissioni di servizio trasformate in trasmissioni giornalistiche, conduttori che fanno i capipopolo…
I giornali non sono da meno. Tanto per cominciare, si è persa qualsiasi distinzione – che sopravvive (e fa la sua parte sul terreno della democrazia, consentendo di fatto pluralismo e radicamento territoriale) in tutti gli altri paesi “occidentali” con sistemi informativi più maturi e animati da logiche di mercato e concorrenza – fra giornali nazionali e giornali locali, e (per quello che riguarda i primi) fra giornali di qualità e giornali “popolari”, fra “generalisti” e “specializzati”. Quasi tutti, a cominciare dai più autorevoli, il Corriere della Sera e la Repubblica, sono una marmellata senza soluzione di continuità: grandi reportages e pettegolezzi, alta cultura e “spazzatura”, informazione nazionale e pagine locali. Con gli esiti di concentrazione proprietaria, di omologazione informativa e di separatezza dai fenomeni, dagli eventi, dai problemi e dallo stesso linguaggio della vita reale che sono sotto gli occhi di tutti.
All’omologazione tipologica si aggiunga, anche per i giornali, la confusione, anzi la scomparsa dei “generi”. E’ antica e consolidata l’idiosincrasia per la “separazione tra fatti e opinioni”. Un passo in avanti, diciamo pure una svolta, sembrava essere stata avviata agli inizi di Repubblica, nella seconda metà degli anni Settanta, grazie alla partnership della cultura dell’Espresso con quella di Panorama (sotto la cui testata allora si leggeva appunto il motto: “I fatti separati dalle opinioni”). Ma dopo qualche anno la componente mondadoriana si ritrasse e lo scalfarismo dilagò, rilegittimando la storica mescolanza che vigeva nel giornalismo italiano tra fatti e opinioni. Nel caso specifico di Repubblica, restituendo la centralità all’intellettuale di stampo ottocentesco che, dalle colonne di un giornale, pretende di svolgere direttamente la sua parte nella politica attiva, come suggeritore o organico divulgatore, e proponendosi addirittura come “giornale-partito” o più semplicemente come “giornale di parte”. Peraltro in un sistema e in un paese dove, non disponendo di una rete solida di veri giornali locali di informazione e di un vero mercato televisivo, non ci si poteva (e non ci si può) prima informarsi e poi formarsi un’opinione, ma solo schierarsi sulla base di una “opinione pubblica” elaborata e calata dall’alto.
Poca o nulla distinzione, dunque, tra cronaca e commento. E, se si vuole essere più sofisticati, neppure una corretta adozione di quell’altro genere giornalistico – anch’esso praticato in particolare nei paesi anglosassoni – che è l'”analisi”, vale a dire l’applicazione di una competenza specifica alla comprensione di un fatto che, non schiacciandosi su di esso, non arrivi però a sovrapporvisi e, come pure succede, a manipolarlo.
Da questo punto di vista si può dire che l’Italia, che pure in anni bui seppe esprimere figure di grandi cronisti, si è assuefatta a farne a meno (“non si fanno più inchieste come una volta…”, “si limitano a stare lì inchiodati alla sedia in redazione a riscrivere agenzie e comunicati stampa…”). Gli opinionisti, invece, dilagano. E il genere “analisi” – a parte l’intervista all’esperto di turno – è pressoché sconosciuto o comunque negletto, poco considerato. Anche se poi, come è successo in questi giorni al Corriere, pur di usare quella espressione, che “fa tanto giornalismo anglosassone”, si mette l’etichetta “L’ANALISI” su quello che è in realtà un vero e proprio commento (il riferimento è ad un bel pezzo di commento, appunto, di Dario Di Vico sul caso Fazio-Antonveneta)…