Per difendere Sodomie in corpo 11 dall’accusa d’oscenità, Aldo Busi lesse un passo non certo casto d’un altro romanzo, Seminario sulla gioventù, dopo essersi sincerato che la parola “cazzo” non avrebbe turbato l’aula: “puntatina ai cessi, proprio per toccare con mano il fatto di essere libero […] Come al solito, dopo tre minuti non spio più i cazzi ma seguo automaticamente i voli delle zanzare”. Perché “Il bello dei cessi pubblici è la sdrammatizzazione degli organi sessuali”. E ciò che diviene pubblico, pure un rapporto omoerotico descritto in un libro pubblicato, perde ogni oscenità.
“Busi in pratica si difese da solo”, ricorda l’avvocato Vanni Ceola, che difese lo scrittore con Giuliano Pisapia. Il candidato sindaco al comune di Milano fu nominato dall’editore, Mondadori, e s’appoggiò al collega di Trento. Ma perché il processo si tenne a Trento? Perché il libro era stato stampato in quella provincia, a Cles. Busi sfoggiava uno smoking Trussardi, un narciso giallissimo, scarpe di vernice, come per il “ballo delle debuttanti”.
“Una gruppo di ragazze triestine gli dava la caccia. Dormivano nello stesso hotel, l’Accademia – dice Ceola – anche se conoscevano i suoi gusti”. Gli inviati delle grandi testate e le telecamere di Un giorno in pretura seguivano il processo: un proscenio invidiabile per trasformarsi da vittima in “eroe”, entrare nella storia come Flaubert, D. H. Lawrence, Pasolini…
La denuncia, inviata anche al governo Andreotti, era sospetta. Veniva da Roma, da tale Paolo Napolitano (non identificato), elencava diciassette passi osceni: “Migliaia di libri ho letto ad oggi, ma mai mi era capitato di imbattermi in un libro indecente, immorale, di inaudita depravazione come Sodomie in corpo 11”. Il procuratore capo, Francesco Simeoni, di area cattolica, era, secondo Busi e altri commentatori, il terminale tridentino della ridicola vicenda. Ispirato da Flaminio Piccoli, ironizzava lo scrittore. Era il marzo del ’90. Il muro di Berlino era appena crollato, la Dc aveva il tempo contato, ma gli ambienti bigotti che avevano tafanato gli scrittori italiani, spalleggiati da magistrati e politici, prepararono l’anacronistico colpo di coda culturale, stile “balena bianca”?
Pisapia non fece altro che seguire le orme di altri difensori di scrittori, come il padre Gian Domenico o Giacomo Delitala che fece assolvere Pasolini e Garzanti. Una vasta giurisprudenza era dalla sua parte. La legge 528 del codice penale sulle pubblicazioni oscene dava una scappatoia per le opere artistiche. Per questo Pisapia la considerava incostituzionale. La deputata Ilona Staller, in arte Cicciolina, ne chiedeva l’abolizione. Il giovane e spaesato pm, Enrico Cavalieri, cercò di negare il valore artistico del romanzo, chiese una pena minima: due mesi. Gli stroncatori non erano pochi: Raboni, Bo, Pampaloni.
Busi fu assolto: “Se Pampaloni parlasse bene di me vorrebbe dire che la mia carriera è finita”. Poi telefonò alla mamma: “è andata male”. A quella prese un colpo ma le spiegò: “se avessi perso avrei venduto centomila copie in più”.
Saturno, Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2011