E' il 31 maggio 2010 quando le forze israeliane fermano in acque internazionali sei imbarcazioni di attivisti filo-palestinesi. Nove morti e una dozzina di feriti il bilancio. All'annuncio di un imminente viaggio, il governo di Netanyahu pensa a come bloccare le navi evitando le polemiche internazionali
E’ passato un anno esatto da quando 610 attivisti di diversi Paesi, tra cui sei italiani, hanno tentato di violare il blocco israeliano alla Striscia di Gaza viaggiando su sei imbarcazioni. Una spedizione, quella della ‘Freedom flottilla‘, terminata nel sangue dopo lo scontro con le forze israeliane, che hanno intercettato le navi nelle acque internazionali del Mediterraneo. Nove i filo-palestinesi uccisi, dozzine i feriti a bordo della più grande delle sei imbarcazioni, la Mavi Marmara.
Ad un anno dalle violenze, gli attivisti hanno annunciato una nuova partenza, entro un mese. E stavolta le imbarcazioni sarebbero 15. I passeggeri della ‘Freedom Flottilla II‘ non sono disposti a rinunciare, soprattutto dopo la riapertura del valico egiziano di Rafah con la Striscia di Gaza. Un annuncio che ha allarmato le autorità israeliane, specie dopo l’annuncio dell’Ihh – sodalizio islamico-militante turco che l’anno scorso promosse l’invio della Mavi Marmara – di voler “onorare la memoria” dei suoi nove “martiri” uccisi nel blitz israeliano dello scorso 31 maggio.
Appoggiato dagli Usa, il governo di Benyamin Netanyahu ha scelto come prima strada la via diplomatica, lanciando appelli in ogni direzione affinché la spedizione sia impedita o quanto meno scoraggiata. Ma se, come pare, la persuasione del premier israeliano non bastasse a fermare la partenza della ‘Freedom Flottilla II’, nemmeno stavolta viene esclusa una possibile azione di forza. Solo riveduta e corretta rispetto a quella del 2010.
I media dell’area riferiscono di esercitazioni della marina israeliana per presidiare il blocco marittimo imposto a Gaza. Nell’addestramento – scrive su Haaretz l’analista militare Amos Harel – sono coinvolti anche riservisti. L’obiettivo è quello di “concentrarsi sulle misure di contenimento” di eventuali azioni di resistenza passiva degli attivisti. L’uso della forza sarebbe quindi una “estrema risorsa”. L’importante è evitare “gli errori” compiuti un anno fa, secondo quanto ammesso ai tempi anche da una commissione tecnica interna. Ma una sorta di ‘arrembaggio’, come quello dello scorso 31 maggio, viene ritenuto indispensabile: nessuno dei vertici militari si sente di escludere che in quel caso si ripeteranno le polemiche internazionali sull’uso della forza da parte di Israele. Soprattutto dalla Turchia, ex partner strategico israeliano, sempre più distante.