Riesplodono le violenze dopo la fragile tregua del week-end concordata con il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Secondo le Nazioni Unite, almeno 50 persone sono morte a Taiz, la seconda città del paese, nel sud, dove le forze fedeli al regime hanno sparato contro una folla di manifestanti
Lo Yemen precipita verso la guerra civile. Annunciata da settimane dei movimenti contrari al regime del presidente Ali Abdullah Saleh, il conflitto interno si sta alzando come un’onda nel più povero dei paesi arabi. Secondo le Nazioni Unite, almeno 50 persone sono morte a Taiz, la seconda città del paese, nel sud, dove le forze fedeli a Saleh hanno sparato contro una folla di manifestanti. L’ufficio Onu in città riferisce che ci sarebbero anche centinaia di feriti. Nella capitale Sana’a, intanto, scontri armati sono in corso tra i reparti dell’esercito ancora controllati da Saleh e membri delle tribù che invece sono contrarie al presidente, che governa il paese da oltre trent’anni. Gli scontri armati sono ripresi dopo un fine settimana di fragile tregua, quando sembrava che il presidente, dopo mesi di proteste, fosse ormai pronto ad accettare un accordo mediato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). L’accordo prevedeva le sue dimissioni, in cambio di garanzie circa la sua immunità. Saleh ha tergiversato fino all’ultimo momento, lasciando intendere di essere pronto a firmare, salvo poi scatenare contro i manifestanti i reparti della Guardia Repubblicana, comandati da uno dei suoi figli.
“L’accordo di cessate il fuoco è finito”, recita una scarna nota diffusa da un portavoce del governo. Non c’è ancora un bilancio delle vittime negli ultimi scontri, ma secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, anche a Sana’a i morti e i feriti potrebbero essere decine. I combattimenti più violenti sono avvenuti nella zona dove si trova il ministero dell’interno, controllato dai fedelissimi di Saleh, e vicino al casa di Sadiq al-Ahmar, uno dei principali leader tribali, che si è schierato contro il presidente e che secondo alcune analisi potrebbe essere uno dei possibili candidati a guidare la transizione verso un regime democratico dopo 33 anni di autocrazia.
A complicare un quadro già molto difficile da districare, l’aviazione militare yemenita ha bombardato lunedì la città di Zinjibar, nel sud del paese, che sarebbe stata assalita nel corso del fine settimana da circa 300 guerriglieri. Il governo yemenita dice che si tratta di un gruppo armato legato ad Al Qaeda, ma è forte il sospetto che l’alibi del terrorismo jihadista internazionale, che pure ha nello Yemen alcune roccheforti, sia usato dal governo per giustificare l’uso dell’aviazione contro gruppi di ribelli. L’opposizione, inoltre, accusa Saleh, di aver deliberatamente lasciato che i guerriglieri attaccassero Zinjibar, importante porto petrolifero, per mostrare alla comunità internazionale il caos che potrebbe scoppiare in Yemen se lui lasciasse il potere. È un tema a cui sono molto sensibili sia Washington che Ryadh, specialmente dopo che l’uccisione di Osama Bin Laden, egli stesso di origini yemenite, rischia di spingere i gruppi della galassia jihadista verso la vendetta.
Inascoltati rimangono gli appelli di Navi Pillay, Alto Rappresentante Onu per i diritti umani, che ha chiesto “a tutte le parti in conflitto”di fermare gli scontri armati e negoziare una via d’uscita politica alla crisi che da quattro mesi paralizza il paese.
Secondo l’International Crisis Group, però, il negoziato politico è complicato dalle rivalità che attraversano entrambi i campi: “L’odio personale e la competizione politica tra i figlio del defunto Sheick Abdullah bin Hussein al-Ahmar (Sadiq e i suoi nove fratelli) e i figli e nipoti del presidente Saleh sono stati finora un ingombrante ostacolo a qualsiasi accordo per un pacifico trasferimento del potere – dicono gli analisti dell’ICG – Oggi questa rivalità rischia di trascinare il paese in una guerra civile a tutto campo. Sebbene gli scontri siano stati limitati finora a questi due gruppi, potrebbero facilmente estendersi ad altre federazioni tribali, ai vicini dello Yemen e alla prima divisione corazzata, comandata dal generale Ali Mohsen al-Ahmar”.
Il generale al-Ahmar, che non appartiene alla tribù omonima, è stato uno dei primi alti esponenti del regime a mollare Saleh e ha tenuto la sua divisione fuori dagli scontri armati. Forse in attesa di una resa dei conti con la Guardia Repubblicana.
Nella sua analisi, l’IGC prosegue: “Il conflitto si è già esteso ben oltre lo scontro feudale personale. Nel corso di un tentativo di mediazione, le forze di sicurezza di Saleh hanno aperto il fuoco sulla casa di Sadiq al-Ahmar, uccidendo molti importanti leader tribali così come uno dei più importanti negoziatori e alleati del presidente, Ghalib Ghamish, capo dei servizi di intelligence yemeniti”.
Sono già centinaia le vittime degli scontri degli ultimi giorni e secondo l’ICG, gli abitanti di Sana’a sono a rischio, perché i combattimenti avvengono in aree densamente popolate e in quartieri residenziali. Migliaia di persone avrebbero già lasciato la capitale, per il timore di un attacco da parte delle tribù dell’interno, sempre meno disponibili a rimanere neutrali nello scontro tra gli al-Ahmar e il clan di Saleh.
Saleh è quasi riuscito con le sue manovre politiche a trasformare in guerra civile la protesta lanciata quattro mesi fa da gruppi di giovani attivisti e di organizzazioni per la difesa dei diritti umani sull’onda del successo delle rivoluzioni in Egitto e in Tunisia. La voce di questi movimenti, adesso, è sommersa dalle rivalità tribali e dai colpi di artiglieria che rischiano di spaccare in due quella che un tempo era l’Arabia Felix.
Joseph Zarlingo – Lettera 22