“Ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai a quasi il 20 per cento della ricchezza nazionale. Ma varrebbe la pena di aggiungere gli oltre 500 miliardi nascosti da proprietari italiani nei paradisi fiscali e su cui non si pagano tasse. Sessanta miliardi di corruzione e 120 di evasione fanno 180 miliardi l’anno. In 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico”.
Questa citazione e queste cifre sono tratte dal libro Soldi rubati, scritto da Nunzia Penelope e appena pubblicato da Ponte alle Grazie.
In questo testo – una sorta di viaggio nei gironi infernali dell’illegalità economica all’italiana – ho trovato di grande interesse soprattutto l’approccio al problema. L’illegalità economica non è vista come una questione essenzialmente giudiziaria e neppure principalmente come un problema morale. L’autrice ci dimostra, dati alla mano, che l’illegalità è prima di tutto un problema di giustizia sociale. L’illegalità economica infatti è quella cosa per cui qualcuno paga i conti di qualcun altro. E questo vale anche quando apparentemente quel qualcuno è lo “Stato”.
(Per inciso, chi “da sinistra” non perde occasione di attaccare il Fatto Quotidiano per il suo presunto “giustizialismo”, farebbe bene a riflettere su questi aspetti dell’illegalità, che oggi rendono la battaglia per la legalità nel nostro Paese un elemento essenziale della lotta per la giustizia sociale).
Un paio di esempi per rendere più concreto il discorso:
“Nel solo anno 2010, se l’illegalità non avesse sottratto una montagna di soldi, il nostro paese avrebbe potuto evitare la manovra da 25 miliardi che ha comportato 13 miliardi di tagli alle regioni (con un conseguente taglio alle prestazioni sanitarie pubbliche dell’11 per cento, aumento del biglietto del bus, e altre amenità) e 8 miliardi di tagli alla spesa pubblica, lasciando senza lavoro 130.000 insegnanti precari”.
“Le centinaia di miliardi che ogni anno finiscono nel buco nero dell’illegalità… non sono un’entità astratta: …sono il nostro debito pubblico, sono i treni dei pendolari tagliati, i biglietti degli autobus che aumentano di prezzo, la lista d’attesa di sei mesi per una TAC, l’insegnante di sostegno per i bambini disabili eliminato, la cronica mancanza di asili nido che ostacola l’accesso al lavoro delle donne”.
“La madre di tutte le illegalità” secondo l’autrice – e per parte mia sono assolutamente d’accordo – è l’evasione fiscale. A causa di questa illegalità, ciascun contribuente in regola paga 3.000 euro all’anno di più; in concreto, negli ultimi 30 anni il lavoro dipendente ha pagato tasse maggiori di quelle che avrebbe potuto pagare per 870 miliardi di euro. Altro che la ricorrente frottola della “riduzione delle tasse”, che vediamo riproposta proprio in questi giorni…
Vale la pena di riflettere su questi dati, mentre ci apprestiamo a subire manovre correttive di entità mostruosa (35 miliardi di euro?) – e poche settimane fa il governo, con straordinario tempismo, ha varato il cosiddetto “decreto sviluppo”, dando la massima pubblicità alla misura più innovativa che contiene: le sanzioni ai funzionari governativi colpevoli… di importunare le imprese con controlli fiscali troppo puntigliosi.
Ma l’evasione fiscale non è la sola forma di illegalità economica trattata nel libro.
C’è il lavoro nero: 2.996.000 i lavoratori al nero stimati nel 2009, in gran parte lavoratori dipendenti (cifra confermata pochi giorni fa dal rapporto Istat sul 2010). A questo proposito sono magistrali le pagine che il libro della Penelope dedica ai retroscena della rivolta dei lavoratori extracomunitari al nero di Rosarno, che intascavano 350 euro netti al mese e garantivano al consorzio agricolo che li faceva lavorare (formato da normali e rispettati agricoltori) guadagni netti per 10 milioni al mese.
Ci sono la distruzione dell’ambiente, la corruzione, le truffe finanziarie su vasta scala, il riciclaggio.
E ci sono gli assassinii sul lavoro: per un totale di 10.000 morti negli ultimi 5 anni, se si includono le malattie professionali. Qualche settimana fa abbiamo letto dell’applauso scrosciante tributato in un’assemblea pubblica di Confindustria all’amministratore delegato della Thyssen da poco condannato in primo grado a 16 anni. Le pagine dedicate a questa vicenda giudiziaria in Soldi rubati contengono le motivazioni tutt’altro che bislacche della sentenza, e in particolare la quantificazione dei risparmi sulle misure di sicurezza che sono costati la vita nel modo che sappiamo a 7 operai: 800 mila euro.
L’ultimo capitolo del libro si intitola “il senso degli imprenditori per la legalità”. Sul punto, quando si leggono notizie del genere, è davvero difficile non essere pessimisti.