Si chiama “discriminazione verticale” e vuol dire che, nonostante un accesso al lavoro in genere più paritario, ai vertici ci restano gli uomini. Se infatti in Europa aumentano le donne nel mondo del lavoro, lo stesso non si può dire per quelle che occupano posti dirigenziali. Tuttora la percentuale rosa nelle posizioni che contano delle aziende europee stenta a decollare. Qual è la soluzione? Secondo la commissione Diritti della donna e uguaglianza di genere (Femm) del Parlamento europeo è arrivata l’ora d’introdurre le quote rosa anche nel settore privato. La decisione, secondo la relazione approvata in commissione, spetterebbe alla Commissione europea, ma sono gli Stati membri che dovrebbero mettere in atto misure concrete. Insomma, senza volontà politica non si va da nessuna parte.
Le cifre fanno tutt’altro che sorridere. Secondo la Direzione generale occupazione, affari sociali e pari opportunità della Commissione europea, le donne rappresentano oggi il 10% dei componenti dei consigli di amministrazione delle più grandi società quotate in borsa nell’Unione europea e solo il 3% ne sono presidenti. Non va meglio nelle piccole e medie imprese, visto che in Ue è imprenditrice 1 donna su 10 a fronte di 1 uomo su 4.
E in Italia? Non ci resta che piangere. Secondo il rapporto “Europeanpwn boardwomen monitor 2010” realizzato dal Professional women network, soltanto il 43% delle aziende ha donne nei CdA, ovvero la percentuale più bassa d’Europa. Meglio non guardare a Norvegia, Svezia e Finlandia, dove la percentuale è del 100%, ma anche a Spagna (85%), Francia (79%) e perfino Grecia (67%). Velo pietoso anche sulla percentuale italiana del numero di donne all’interno dei CdA, dove ci attestiamo al 3.9%. Peggio di noi solo il Portogallo, anche se di poco (3.45%), mentre vanno meglio tutti gli altri: Norvegia (37.9%), Regno Unito (14%), Francia (12%) e ancora Grecia (10.2%). Questo vuol dire che in Italia su 382 membri di CdA solo 15 sono rosa. In Svezia sono 61 su 216, in Belgio 15 su 135 e in Grecia 12 su 117.
A dare l’esempio, come capita spesso nelle pari opportunità, sono i paesi scandinavi. La Norvegia rappresenta infatti un punto di riferimento essendo stato il primo paese ad adottare una legislazione sulle quote rosa nelle imprese. Introdotta nel 2003 dal ministro del commercio e dell’industria (non da quello per le pari opportunità), questa legislazione obbliga le imprese all’obiettivo di avere almeno il 40% di donne nei CdA delle società quotate in borsa. In caso contrario, se tale cifra non venisse raggiunta, sono previste sanzioni economiche o addirittura lo scioglimento aziendale. Anche la Germania si è data da fare. Kristina Schröder, ministro federale della famiglia, ha espresso l’auspicio di ottenere il 20% di presenza femminile nei CdA entro il 2015. Se questa soglia non venisse raggiunta entro questa data, il ministro proporrà un testo che stabilisca una quota obbligatoria. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il ministro della giustizia della Baviera, Beate Merk, che si è detta a favore di un quorum tra il 15 e il 20% in vista del finale 40%. Sul versante delle imprese, la Deutsche Telekom rappresenta un esempio unico, essendosi volontariamente prefissata l’obiettivo di raggiungere la quota del 30% entro il 2015.
Obiettivi in linea con quanto proposto dalla commissione Femm del Parlamento europeo, che fissa al 30% la presenza femminile entro il 2015 e al 40% entro il 2020. Come raggiungere questi obiettivi? Secondo le relatrici Rodi Kratsa-Tsagaropoulou e Marina Yannakoudakis, gli stati membri si devono impegnare per eliminare i classici ostacoli alla carriera femminile, introducendo misure come un maggiore congedo di maternità, interruzioni di carriera, flessibilità degli orari e agevolazioni per i genitori (asili nidi e doposcuola). E poi ancora un insegnamento specifico per imparare a conciliare vita personale e professionale e corsi di accompagnamento.
Adesso, prima che la parola passi alla Commissione europea, sarà il Parlamento a dover votare nel suo insieme le due relazioni nella plenaria di luglio. Certo al momento l’Ue non sta dando il buon esempio, visto che su 27 Commissari Ue solo 9 sono donne, con i pesanti portafogli di Mercato interno ed Energia saldamente in mani maschili. Uomini sono anche il Presidente del Consiglio europeo e tutti i leader dei 7 gruppi politici al Parlamento europeo, con l’eccezione di Rebecca Harms, copresidente dei Verdi. Un passo avanti è stato fatto con la nomina di Catherine Ashton a capo del Servizio di politica estera Ue, ma di strada ce n’è da fare ancora parecchia.