Moses ha tre anni ma dimostra nove mesi, è affetto da una grave forma di tubercolosi. Mika dice di non sapere se ha l’Hiv, ma che comunque preferirebbe ricorrere al guaritore. Tatu ha 38 anni, è sieropositiva, ma suo figlio Faith è nato sano. Tre vite, tre storie che vengono dalla Tanzania, uno stato dell’Africa orientale dove l’Aids colpisce – secondo i dati del Programma di controllo nazionale su Hiv/Aids – 17 persone ogni 100. In termini assoluti, due milioni di persone ammalate di Aids su una popolazione complessiva di 38,3 milioni di persone. Ma proprio nel Paese dove la malattia si è fatta pandemia, si è costituito il Population services international (Psi), un’organizzazione non governativa nata grazie alle donazioni dei paesi del mondo al Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi.
Il Fondo, con sede a Ginevra, è un partenariato internazionale che si occupa di raccogliere e distribuire risorse per prevenire queste tre malattie con oltre 600 progetti in 140 paesi del mondo. Ma degli oltre 40 paesi donatori, il nostro è l’unico a non aver versato per due anni la quota all’organizzazione: né i 160 milioni di dollari annunciati da Silvio Berlusconi per il 2009, né i 183 milioni per il 2010. Un’insolvenza costata all’Italia il posto nel consiglio di amministrazione del Fondo, sede in cui ora siede la Francia (Leggi l’articolo).
E se il 5 giugno del 1981, il Centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie identificava un’epidemia di pneumocistosi polmonare in alcuni omosessuali di Los Angeles individuando per la prima volta la “Sindrome da immuno-deficienza acquisita”, esattamente 30 anni dopo può essere molto utile andare in Tanzania, per vedere quanta strada c’è ancora da fare per debellare il virus che ha ucciso 25 milioni di persone in tutto il mondo e perché sono così importanti i 343 milioni di dollari che l’Italia non ha versato al Fondo Globale per la lotta contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi.
“Kama kweli unampenda vitamlinda”: “Se ami qualcuno lo devi proteggere”. Siamo nella capitale della Tanzania, Dar El Salaam. I ragazzi del Population services international, come ogni settimana, hanno organizzato una festa. Intorno a loro, centinaia di persone arrivate al tramonto. In questo spiazzo, fra animali, carri che trasportano la frutta, il terriccio che si alza dal suolo a ogni soffio di vento, si cerca di far penetrare il messaggio: “Kama kweli unampenda vitamlinda” cioè “se ami qualcuno lo devi proteggere”. La cultura della prevenzione è ancora un miraggio: “Ci vorranno generazioni affinché cambi davvero qualcosa – dice il responsabile del PSI, Lloyd Bose – noi ci proviamo in modo divertente. Regaliamo preservativi, raccontiamo perché è importante usarli. Così le cose stanno cominciando a cambiare”.
La trasmissione del virus dell’Hiv da madre sieropositiva a figlio è una delle piaghe più profonde del paese, ma da quando il Fondo ha cominciato a sovvenzionare i programmi per la lotta contro l’Aids, i malati che possono accedere alle cure con i farmaci che impediscono la replicazione del virus (gli antiretrovirali), sono passati dai 23mila del 2005 a 250mila. Inoltre, 160mila donne in gravidanza affette da Hiv hanno potuto partorire un figlio sano. Come Tatu, sieropositiva, infermiera al Christian Medical Center di Moshi (un villaggio alle falde del Kilimanjaro) che ha partorito Faith: “Quando è nato ed è risultato negativo – racconta Tatu – è stata una gioia immensa. Il virus l’ho contratto dal mio compagno. Anni dopo mi ha rivelato che sapeva di essere malato, ma non me l’ha detto. Aveva paura”.
Ma se nella prevenzione, nella cura e soprattutto nella ricerca di un vaccino per il virus Hiv (Leggi l’articolo) sono stati fatti grandi passi avanti, si è ancora lontani dallo sconfiggere l’epidemia. Basti pensare che secondo il Global Report 2010 dell’Unaids, nel 2009 le persone affette da Hiv nel mondo erano 33,3 milioni e rispetto al 2001 si registravano aumenti in Medio Oriente e Nord Africa, Africa orientale, Oceania, Europa orientale e Asia centrale e Nord America.
Il Fondo globale sta facendo molto. E’ grazie agli oltre 600 milioni di dollari (circa 420 milioni di euro) investiti, di cui 15 destinati al programma contro la tubercolosi, che si è riusciti a “guarire” l’85 per cento dei malati. Le risorse fornite dal Fondo servono anche per i malati gravi di tubercolosi, quelli resistenti ai farmaci, i cosiddetti MDR-TB. Malati come Moses, un bimbo di tre anni che non ne dimostra nemmeno uno. All’ospedale lo ha portato la nonna Paulina: “Abbiamo provato prima con la medicina tradizionale, il Lodua, che si mescola al latte, ma non aveva la forza di alzarsi”. Un racconto che testimonia l’altro grave problema che affligge la Tanzania: il ricorso alla medicina tradizionale, ai guaritori. Il governo lo accetta ma, spiega il ministro della Sanità: «Diciamo sempre: ‘Non aspettate troppo tempo, se non vedete i risultati, passate alla medicina ufficiale'”.
Insegnare a combattere contro una medicina inefficace, il pregiudizio, i preconcetti è un compito arduo di cui il Fondo si è preso carico. Attraverso l’investimento nell’istruzione con un doppio scopo: abbattere l’emarginazione verso i malati, diffondere le pratiche di prevenzione. Perché 30 anni dopo la scoperta del virus, c’è ancora molta strada da fare. Per questo il Fondo aiuta ad aprire dei consultori anche nei villaggi più sperduti, come quello di Merarani, dove vivono i Masai.
In questa comunità sono prevalentemente minatori, l’Hiv si trasmette per lo più a causa della prostituzione e per il fatto che i Masai, poligami, ritengono di essere immuni dal virus. Con la veste rossa dei Masai e alcune piccole pietre di tanzanite in mano, Mika Parasoi dice di non sapere se ha l’Hiv: “Non abbiamo mai fatto il test nella mia famiglia e non so come si usa il preservativo, ma se dovessi risultare positivo preferirei curarmi con la medicina tradizionale”.
“Il problema principale è lo stigma – dice il dottor Reginald Msaki, direttore del Mererari Health Center che con tre dottori si prende cura di 10.000 persone – la gente affetta da Hiv viene disprezzata ed emarginata, per questo lo tiene nascosto. Ma da quando abbiamo aperto il centro la gente ha cominciato a parlarne e a farsi curare”.
Ma al personale dell’ospedale mancano le mascherine per non infettarsi. Manca la motivazione. “Il personale non è sufficientemente motivato. ‘Perché infettarsi, pensano, e rischiare la vita per uno stipendio che di media è di 400 euro l’anno’? – dice il direttore – Per questo manca il personale, mancano i letti e soprattutto manca la volontà dei malati di lasciare la propria casa e venire a farsi curare”. Oltre ai costi di trasporto che la gente residente nei villaggi lontano dagli ospedali non sempre può sostenere, l’economia di casa non può rinunciare a una persona: “Noi ci dobbiamo occupare anche di questo, così abbiamo istituito anche dei servizi a domicilio, ma a volte dobbiamo scontrarci con gente che ci dà nome e indirizzo falsi, perché riconoscere di essere malati vuol dire essere emarginati dal villaggio”.
Non tutti sono coraggiosi come un’altra masai che incontriamo. Nonostante tre uomini la stiano fissando con sguardo arcigno, confessa di essere malata di Aids. “Il problema è che gli uomini non si preoccupano di evitare la diffusione del virus. Prima chi era malato era emarginato. Per fortuna ora hanno aperto questo centro e la gente comincia a farsi curare”.
I soldi servono anche per le zanzariere, semplici, ma preziosissime griglie che proteggono dalla malaria. Finora, grazie ai 15 milioni di dollari destinati dal Fondo alla lotta contro la malaria in Tanzania, ne sono state distribuite otto milioni a donne in gravidanza. Con i fondi è nata anche un’associazione che distribuisce voucher alla popolazione, grazie ai quali le zanzariere costano 500 scellini invece che 2500, un euro e 15 centesimi. E con i 343 milioni di dollari che il Fondo aspetta dall’Italia si potrebbe molto più di questo.