Un inquilino di questo blog tempo fa dipingeva un quadro a dir poco idilliaco del Parlamento inglese, dove «il dibattito risulta snello e dinamico, gli interventi degli oratori liberi, comprensibili e non affossati negli abissi del politichese. (…) La discussione è accesa, il dibattito è aspro, ma c’è sense of humour, spontaneità, partecipazione…».
Bene, posso confermare tutto: tra gli scranni del Parliament non si mangia la mortadella, non si applaudono gaglioffi matricolati e non si tirano ceffoni. Tutto molto civile, e molto educato. Ma in un sistema “democratico”, conta la forma o la sostanza? Perché, posso assicurarvi, questo è uno dei sistemi più insensati, iniqui e antiquati dell’intero emisfero occidentale. Certo l’Italia non ha nulla da esportare, ma dovremmo davvero imitare la legislazione inglese?
Guardiamo il meccanismo elettorale. Come succede negli Usa, dove i “grandi elettori” sono distribuiti secondo il censimento dei tempi di Geronimo, le elezioni del Parlamento britannico si svolgono secondo divisioni territoriali di tipo medievale: a ogni territorio corrisponde un numero arbitrario di seggi, a prescindere da quanta gente vi abita. I voti per i singoli partiti non vengono poi sommati a livello nazionale, ma si traducono in seggi solo attraverso gli eletti nei singoli territori. Accade così che partiti che ottengono migliaia di voti a livello nazionale non conquistino alcun seggio, mentre altri ne prendano in maniera molto più che proporzionale al numero di voti ottenuti.
Accade, soprattutto, che a livello locale difficilmente la gente si azzarda a “sprecare” il suo voto per partiti “di minoranza”. Se in Italia abbiamo sofferto per anni di “eccessi proporzionalisti”, in Inghilterra le sfide elettorali sono da tempo immemorabile una contesa tra i due-tre partiti principali: uno più avvizzito dell’altro. Sarebbe impensabile, nella civilissima Britannia, vedere nascere e crescere una qualche politica “di movimento”, “dal basso” , o addirittura un comico/blogger proporre le sue liste. Anche un Nichi Vendola sarebbe impossibile. Meglio così? Chissà.
Ma, se anche questo fosse possibile, una volta arrivati dentro il Parlamento la situazione è ancora peggiore. Mentre la House of Commons è composta dagli eletti secondo il sistema sopra esposto, la House of Lords è una carcassa preistorica i cui membri o ereditano la propria carica – lungo le linee di sangue dell’aristocrazia – o la ricevono direttamente dalla Regina – per “meriti speciali”. Tutto molto civile, e molto educato. Peccato che quest’assemblea di patrizi e imprenditori nelle grazie di Sua Maestà abbia il potere di bloccare qualunque legge esca dalla House of Commons. Vi sembra poco?
Se è poco, si aggiunga anche che in Inghilterra gli scioperi generali sono vietati dal 1927 – come solo negli Usa, in Australia e nei regimi socialisti -, che la polizia ha ormai poteri illimitati e che la stampa è interamente controllata dai fighetti oxfordiani. Forma o sostanza, dunque?
Accennando alle lotte di questi mesi, da parte di studenti e sindacati, ho scritto che solo qui è possibile cercare una rivolta: non perché la rivolta sia realmente praticabile, ma perché v’è la possibilità di immaginarla. Ed è tanto più ammirevole quest’immaginazione, quanto più opprimente è il sistema che la ingabbia. Non è il desiderio di rinnovamento che qui manca, né le folle in piazza. Mancano le strutture che permettano di realizzarlo.
Pessimista? Affatto. Con un Parlamento che assolve perfettamente alla sua funzione di rappresentare poteri forti e immutabili, ancor più centrale sarà il ruolo delle minoranze, delle aree autonome, della politica “fuori dal voto”. Ci daremo da fare.
di Paolo Mossetti, scrittore, nato a Napoli nel 1983, tra i fondatori dei gruppi attivisti Il Richiamo e Through Europe. Collabora con ‘Lo Straniero’, ‘Nazione Indiana’, ‘Alfabeta2’. Vive a Londra.