Il dibattito pubblico odierno è giustamente concentrato sull’esito dell’appuntamento referendario e sugli impatti che ne deriveranno per i nostri equilibri politici. Rendiamoci però conto che i quesiti posti assumono un significato, se possibile, ancora più decisivo della posta direttamente in palio. Segnano svolte radicali nel modo stesso in cui pensiamo l’economia e la società.
Di certo il tema dell’acqua e della sua privatizzazione registra il discredito raggiunto dalle teorie liberistiche dominanti nei decenni scorsi, che nel nostro Paese si sono sostanzialmente tradotte nella svendita dell’argenteria di casa da parte dello Stato a vantaggio di cordate mosse da palesi intenti accaparratori e speculativi. Dopo gli acquedotti varrà la pena di esaminare gli obiettivi reali di analoghi progetti in corso, quale quello di trasferire la proprietà delle infrastrutture logistiche dalle attuali Autorità Portuali, ora sottoposte al controllo pubblico, a società per azioni nella cui compagine troveremmo banche e magari imprese di costruzione.
Dunque, un ritorno a quel concetto di “interesse generale” a lungo negletto. Il che significa la sacrosanta riscoperta della politica industriale in età postindustriale. Effetto, a maggior ragione, messo in evidenza dalla questione energetica posta nei termini di scelta nucleare o meno. Una questione impostata vuoi come “tecnologica”, vuoi “di sicurezza”, che invece marca l’assoluta centralità della politica quale modalità di organizzazione della vita.
Infatti, se parliamo di energia sotto il profilo tecnologico, precipitiamo immediatamente nella babele delle mille opinioni inverificabili presentate come soluzione salvifica, nella discussione tra presunti tecnici in rissa per ribadire il proprio punto di vista. Se ragioniamo in termini di sicurezza, le uniche tesi possibili sono quelle (altamente improbabili) di fermare lo sviluppo e puntare alla decrescita. Invece, partendo dall’assunto che l’energia è questione politica, possiamo entrare nella logica del come organizzare la società rendendola compatibile con un dato di fatto: l’epoca delle fonti energetiche abbondanti e a basso costo è finita, per cui ricercare soluzioni alternative che ci consentano di proseguire nell’attuale regime di spreco suona mistificatorio ed elusivo.
In questa direzione si muove il recente rapporto promosso dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite: Decoupling natural resource use and environmental impacts from economic growth (Disaccoppiare l’uso delle risorse naturali e l’impatto ambientale dalla crescita economica). Documento che premette un dato allarmante: nel 2050, se l’attuale stato di cose non sarà modificato, l’umanità consumerà annualmente 140 miliardi di tonnellate di minerali, combustibili fossili e biomasse. Circa tre volte le quantità attuali.
Da qui il messaggio “fare più con meno”, disaccoppiando (decoupling) l’intensità di energia e materie prime per unità di Pil. Ma per condurre in porto un’operazione di tale profondità e vastità, non possiamo certo puntare sulle ipotetiche capacità autoregolative del mercato o il bricolage del fai da te dei comportamenti individuali virtuosi. Occorre mettere in campo, a fianco di quello tecnologico, un poderoso sforzo di innovazione politica. Lo si diceva: la politica come primaria funzione organizzatrice della vita; dai tempi del quotidiano al modo di produrre, dal come edificare alla mobilità collettiva.
Ci sono due modalità e due sole per far fronte a una crisi sistemica che mette in discussione non solo la sopravvivenza della specie umana, ma anche quella del pianeta: la via tecnocratica, calata dall’alto, che incentiverebbe le derive oligarchiche che hanno soffocato la partecipazione politica e l’informazione trasparente; quella democratica, che rivitalizzerebbe il discorso pubblico come deliberazione collettiva sui comuni destini.
Ulteriore conferma della concreta convinzione che nell’appuntamento referendario non sono in gioco soltanto questioni specifiche. Qui si sta mettendo in ballo la stessa qualità democratica del Paese in cui vogliamo vivere.