Guai dimenticare e chiudere gli occhi. L’omicidio del magistrato Bruno Caccia e lo scioglimento del comune di Bardonecchia per infiltrazioni mafiose sono ricordi svaniti dalla memoria dei piemontesi. Così succede che, in silenzio, la ‘ndrangheta si ricostituisce e si deve ricominciare da capo per sgominare un’organizzazione strutturata nell’arco di vent’anni. Così è successo con l’inchiesta Minotauro. “Un’attività che abbiamo visto crescere con tutta una serie di sforzi e impegni fatti da uomini straordinari con mezzi ordinari”, riassume il colonnello dei carabinieri Antonio De Vita. Cinque anni di indagini sintetizzati su un cartellone con le nove locali della ‘ndrangheta piemontese (sezioni territoriali), la “provincia”, il “crimine”, e le loro strutture, ricostruite documentando moltissimi incontri sul territorio tra ‘ndranghetisti di ogni livello, 138 riunioni più cinque funerali e una comunione.
Molti sono gli elementi portati alla luce del giorno da “Minotauro”, ma una cosa era chiara da tanto tempo, dal 26 giugno 1983, quando fu ucciso il giudice Caccia: “La ‘ndrangheta in Piemonte non è una novità – afferma il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli -. Esiste un autonomo sodalizio a livello piemontese, ma con collegamenti innegabili con la Calabria”. Quello che più lo amareggia è “la presenza della ’ndrangheta in segmenti della vita politica e pubblica piemontese” accertate dal gip Silvia Salvadori: “Il dato oggettivo che emerge nei rapporti tra esponenti della ’ndrangheta e mondo istituzionale è la sintagmaticità: futuro, devozione che la persona appoggiata saprà poi dimostrare alla ‘ndrangheta. Relazioni esterne che assicurano lavori e affari. È il caso del voto di scambio in consultazioni di vario genere, locali, regionali e europee”.
Alcuni accertamenti sono ancora in corso, ma ciò non elimina il dispiacere del procuratore capo: “Nella città in cui Bruno Caccia è stato ucciso, il fatto che ci siano personaggi disposti a trescare con mafiosi o paramafiosi è inaccettabile”. Il riferimento è soprattutto a Nevio Coral, imprenditore, ex sindaco Pdl di Leinì (carica ora ricoperta dal figlio Ivano) e suocero dell’assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero (da alcune settimane indagata per lo scandalo sanità). Coral è uno delle 141 persone arrestate stamane e di lui Caselli disegna un ritratto dai toni chiari: “Si tratta di un soggetto ben collocato in scambi nell’ambiente ‘ndranghetista, che si guarda bene dal denunciare, che foraggia gli affiliati quando detenuti, che trae vantaggio, promette distribuzioni di posti di lavoro e cariche amministrative”. Caselli legge delle intercettazioni di Coral contenute nell’ordinanza: “Prendiamo uno lo mettiamo in comune, l’altro in consiglio, uno alla pro loco, uno in un’altra cosa, e diventiamo un gruppo forte con persone nostre ovunque”, dice il politico a un uomo della ‘ndrangheta.
“Ecco il concorso esterno di Coral, biglietto da visita della ‘ndrangheta. Non è spettatore passivo perché promuove incontri e accordi, anche voti di scambio”. E dire che Coral, nel 1999, fece intitolare il palazzetto dello sport di Leinì a Giovanni Falcone, “uno dei tanti martiri italiani”, è scritto sul sito del politico.
“È l’ennesima riprova che le mafie cercano di occupare spazio nelle regioni ricche come il Piemonte – afferma Antonio Patrono, sostituto procuratore dell’Antimafia -. Questa operazione non è una fine ma un inizio”. Ma è la continuazione di un metodo d’indagine che al Nord sta scoperchiando le infiltrazioni criminali, come sostiene il procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, il quale sottolinea che questa è “la seconda tappa del metodo che ha portato all’indagine ‘Crimine’, con un’intesa tra procure e scambio di atti”. Eppure, concordato tutti, il lavoro non si è concluso, questa è solo una fase. Sono in corso di individuazione altre locali e gli accertamenti sul coinvolgimento di politici locali.