Il sipario del processo d’Appello per la morte di Federico Aldrovandi, al Tribunale di Bologna, si alza su una fotografia rossa, un quadro astratto di globuli e macchie indistinguibili.

Quella fotografia è il cuore di Federico Aldrovandi, ingrandito, sezionato, ispezionato fin negli umori più segreti, per avere la prova di causalità che chiuda il processo sulla sua morte, e scriva per sempre la verità della sua storia.

Un racconto con molte pagine già chiare, fra le luci e le ombre di quella mattina, quando Federico, tornando a casa dopo una serata in discoteca, si scontrò con quattro poliziotti, e perse la vita. Una morte per la quale è già intervenuta una condanna in primo grado per omicidio colposo.

Una morte sulla cui causa dunque si torna a discutere, nell’esigenza di dimostrare definitivamente se fu la violenza dei poliziotti nello scontro, a uccidere Federico, o se invece la morte fu causata dall’agire combinato delle droghe.

I medici consulenti delle parti, questa dimostrazione la cercano nella fotografia dei tessuti cardiaci di Federico, analizzando ogni curva, ogni colore, ogni spazio fra le cellule.

Federico Aldrovandi è morto del proprio delirio.

E’ questa la tesi, rivelata brutalmente, che muovono le difese dei poliziotti. Federico prima ha cercato la scontro, e poi nell’agitazione, le alterazioni causate dalla droga gli hanno fatto scoppiare il cuore, per l’eccesso provocato nel sistema, per il caos del corpo e della mente. Teoria della Sindrome da delirio eccitato, come spiegano le consulenze.

Per la Procura Generale invece, quella mattina, sono i quattro poliziotti a perdere il controllo e pestare Federico, infierendo sul suo corpo fino a spaccare i manganelli, fino a spaccargli il cuore. Il consulente dell’accusa lo legge proprio in quelle foto: il decesso è avvenuto per compressione meccanica del fascio di His: la macchina scura in quel cuore, è un ematoma , ed è la firma della violenza subita.

Una macchia, nel cuore di Federico, e due storie, molto diverse, intrecciate di colpa e di violenza, di testimoni e nebbie, dei tanti aspetti di un processo ora palese ora torbido.

C’è una regola sacra, che impara chi lavora col diritto: durante un processo, i sentimenti devono tacere. La giustizia non è vendetta, il dolore non fa i colpevoli: escludere il dolore, nel giudicare, e’ la legge più profonda, la necessità più imprescindibile, umana e disumana allo stesso tempo.

Nel processo a Federico Aldrovandi è difficile tenere a bada le emozioni, specie quando, strisciante, odioso, il giudizio sembra chiamarle in causa, spostandosi a un giudicare la vita stessa, le sue scelte, i suoi errori.

E’ un sospetto, un sapore, eppure talvolta sembra quasi che l’unica colpa che si voglia denunciare contro Federico Aldrovandi sia quella di essere Federico Aldrovandi.

Ultimamente sembra capitare spesso. Si ricorre allo spauracchio del drogato, ad esempio, per cambiare l’immagine di una persona.

E un corollario che sembra talvolta affiorare, senza mai svelarsi, anche in questa Sindrome da delirio, perché non mi riesce facile capire altrimenti, come questa sindrome trasparente, questa strana agitazione, potrebbe cancellare una lesione del tessuto cardiaco lì scritta nel petto sano di un ragazzo di diciotto anni.

Non mi riesce facile capire nemmeno perché nel corso di due processi, si è detto di come Federico si drogava, di quando, di quante volte, di dove e con chi, dei posti che frequentava, del fatto che tornava a casa a piedi sicuramente per smaltire le allucinazioni o forse per non farsi scoprire dai genitori, che comprava la droga dai punkabbestia, che c’aveva in testa chissà che idee, che era uno che si calava pesante e allora la droga deve per forza essere la causa.

Tutto questo è forse suggestivo, e capisco anche a cosa serva, ma è proprio per evitare questo giudizio morale che esiste il processo penale.

Un processo di fatti: La notte, lo scontro, le divergenze, le perizie mediche e tossicologice, gli accertamenti, le telefonate, le parole dei testimoni e le lamiere dell’auto, le grida. Ricostruiti, smontati, sorretti o smentiti, e infine accertati oltre ogni ragionevole dubbio, sono i fatti che porteranno ai giudici la loro decisione.

Il Procuratore Generale ci tornerà spesso: ascoltare il linguaggio delle cose, la loro muta sincerità.

Anche il corpo e il cuore sono fatti. Il processo è entrato fin dentro il corpo e il cuore di Federico, ma nessuno ci ha dato potere per spingerlo fin dentro l’anima.

Vale sempre e per tutti gli attori di questo teatro.

Vale perchè sono i principi democratici a sancire che si è vittime o colpevoli di ciò che si fa, non di ciò che si è, e il modo di essere non fa il criminale e nemmeno, mi si permetta, la vittima.

Vale perché, anche io come tutti ho avuto 18anni, e anche a me piace passeggiare un po’, tornando a casa, in certe sere che d’autunno, che ho fatto troppo tardi.

Non vorrei certo un domani, dovermi giustificare di questo.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti

GIUSTIZIALISTI

di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita 12€ Acquista
Articolo Precedente

E’ il Pdl, ma sembra la Lega: a Ravenna documento contro l’assessore marocchina

next
Articolo Successivo

La Bologna in bianco e nero dei formidabili anni Sessanta

next