La storia di Emmanuel, vittima della tratta internazionale dei baby calciatori africani, mi arriva come un calcio nei denti. Specie in questi giorni, in cui scandali e corruzione pervadono capillarmente il mondo del calcio italiano.
Emmanuel è nato in Ghana, oggi ha ventuno anni e vive in Italia da due. E’ “clandestino”, ma ha già lavorato, in condizioni disumane, nei campi di Foggia e di Rosarno, così come nei cantieri del fotovoltaico in Puglia, il business postmoderno dell’energia “pulita”, che, evidentemente, si nutre anch’esso di lavoro sottopagato. Le mani di Emmanuel sembrano attrezzi da lavoro, tanto sono callose e consumate. Un tempo, però, da bambino, sognava di fare il calciatore professionista: “Ero bravo, molto bravo. Me lo dicevano tutti: amici, genitori, fratelli, maestri. Giocavo già nella squadra della mia città. Mi avevano dato anche un sopranome: Roger Milla mi chiamavano, lo conosci?”. No, non mi ricordo proprio di Roger Milla, ma provo comunque ad annuire perché mi interessa ascoltare la sua storia, che si rivela assai emblematica:
“Sono venuto in Europa perché mi avevano assicurato che potevo giocare in una grande squadra di calcio. Avevo 15 anni quando un uomo consigliò a mio padre di registrarmi in una ‘accademia del calcio’, perché lì vengono i talent scout europei che selezionano dei baby calciatori africani da portare in Europa. Mio padre vendette molti dei beni che mio nonno gli aveva lasciato e pagò 1.500 euro per farmi entrare nell’’accademia’. Dopo pochi mesi, infatti, si sono presentati due uomini bianchi, uno era francese e l’altro belga, che selezionavano i baby calciatori per conto delle grandi squadre europee. Per farmi accedere al provino mi chiesero altri 2.000 euro. Superai le selezioni, il talent scout francese promise di farmi giocare nel Paris Saint Germain oppure nel Real Madrid. Mi mostrò i contratti. Te lo giuro.
Come me, furono selezionati altri sette amici. Ero molto felice. Anche i miei genitori. L’unico problema era ottenere il visto per entrare in Europa. L’uomo francese, che si chiamava Michel, mi disse che non mi poteva aiutare. Io dovevo partire, ad ogni costo. L’unica strada che mi restava era quella di raggiungere la Tunisia e da lì partire con le barche. Ci ho messo otto mesi per arrivare in Tunisia. E’ stata molto dura. Ci sono stati giorni in cui non riuscivo neanche a mangiare. Dalla Tunisia sono partito con un barcone per raggiungere l’isola di Lampedusa. Mi hanno poi trasferito in un centro per minori in Sicilia, ma io sono scappato dopo due giorni, perché dovevo andare a giocare a Parigi. Ci sono andato a Parigi, ma il mio talent scout è sparito. Non l’ho mai più trovato. E così, mi sono trovato da solo per strada. A Parigi, ma poi anche a Milano e a Roma, ho incontrato altri baby calciatori come me. Le strade dell’Europa sono piene di gente come me”.
Emmanuel si ferma qualche istante, scuote la testa e poi aggiunge: “Sai, io sono comunque tra i più fortunati. Conosco altri amici calciatori che sono stati espulsi e scaricati come bestie nei deserti della Libia e dell’Algeria”.
L’industria del calcio fa tante vittime, ma pochi ne parlano.