I referendum per l’acqua pubblica rischiano di mandare in tilt le multiutility targate Pd. Il caso più eclatante è quello di Hera Spa, colosso che in governa gas, acqua e rifiuti in Emilia Romagna da Modena fino a Rimini e controllata dai Comuni stessi per il 61,5 per cento.
Hera minaccia di bloccare gli investimenti. Un colosso quotato in borsa, nato per volontà del Pds allora (la costituzione formale della spa è del 2002) oggi Partito Democratico. Il casus belli è diventato il secondo quesito referendario sull’acqua (12 e 13 giugno), ma il match vero è quello sugli investimenti. Il fronte più caldo dello scontro è sicuramente quello del territorio di Rimini, dove l’amministratore delegato di Hera Maurizio Chiarini è arrivato tre giorni fa per presentare il bilancio di sostenibilità dell’azienda e ha messo tutti in guardia: “Se vincerà il sì, il referendum bloccherà gli investimenti con effetti pesanti per l’occupazione e pericolosi per i consumatori”.
La reazione di una parte del Pd. Apriti cielo. Il presidente Pd della Provincia di Rimini, Stefano Vitali, ha studiato per giorni la replica. Prima, pur senza dare indicazioni, ha invitato tutti gli elettori a recarsi alle urne (il neo sindaco Andrea Gnassi è andato oltre, invocando “quattro sì”). Poi, Vitali si è scatenato: “Giudico quello di Chiarini uno scivolone che non fa bene al dibattito sul referendum e soprattutto rischia di lasciare strascichi nella relazione con l’azionista di riferimento, che è senza dubbio l’intera comunità locale”.
Vitali rimprovera all’ad di origini ferraresi “considerazioni in controtendenza con la realtà dei fatti: sostenere che la vittoria del sì metterebbe a rischio gli investimenti sulle reti idriche cozza con le decisioni prese dai territori in regione sulla base di un assunto inderogabile”. Questo perché “gli investimenti pubblici di Hera sono tutti compresi all’interno dei piani tariffari approvati dalle Ato”, ricorda il presidenteVitali. Infatti, alla fine del 2008, a Rimini è stato varato un corposo piano pluriennale di opere circa la riqualificazione della rete: per esempio, c’è il raddoppio del depuratore di Santa Giustina, sulla base di precise tabelle di incrementi in bolletta. Queste ultime rappresentano “un sacrificio per la comunità riminese, sopportabile esclusivamente a fronte di opere necessarie a migliorare la qualità del servizio e ambientale”, scandisce Vitali che cita la Francia: “In un contesto anche internazionale, si veda il processo di ripubblicizzazione dell’acqua in Francia, in cui le aziende a proprietà pubblica del territorio riprendono in mano la gestione della risorsa idrica, vi è un indiscutibile vantaggio di Hera, che rappresenta anche una garanzia per la nostra area, nel passare dal meccanismo delle gare all’affidamento in house”.
Dunque, l’affondo finale: “Le dichiarazioni di Chiarini – tuona il presidente della Provincia di Rimini – rischiano di fare confusione su un tema delicatissimo, perché incide sensibilmente sia sulla qualità ambientale del territorio sia sulle tasche di famiglie e imprenditori”. Rispetto alle bordate di Vitali, Chiarini invoca “pacatezza” e prova a non battere ciglio: “Leggo le dichiarazione rilasciate dal presidente della provincia di Rimini su un argomento complesso che richiede opportuni approfondimenti”.
L’imbarazzo del partitone. Sino ad oggi la politica del Partito Democratico in multiutility come Hera Spa o e Iren Spa è stato favorevole all’ingresso di privati e una gestione economica-finanziaria del settore idrico. Tanto che le stesse quotazioni in borsa delle multiservizi ex pubbliche sono state condotte tutte da operazioni politiche guidate dal Pds prima, poi dai Ds insieme alla Margherita ed in seguito dal Pd. Ora il “si” all’acqua pubblica da parte di buona parte del Pd, ai quesiti promossi dai Comitati Acqua Bene Comune (ai quali il partito di Bersani non aderì lo scorso anno) se si raggiungerà il quorum apriranno un problema politico.
Gli scenari post referendum. Quale sarà il comportamento del maggior partito del centrosinistra nei confronti di Hera Spa e Iren Spa da lunedi pomeriggio? Si arriverà allo scorporo delle società dell’acqua dalle multiutility con le maggioranze di centrosinistra che inizieranno a contestare anche i manager da loro nominati? Al di là del “sì” ufficiale del partito, il fronte del “no” è molto forte infatti dentro gli eletti nelle istituzioni e la partita si giocherà tutta lì. Con il rischio di un ulteriore scollamento tra volontà dei cittadini e scelte politiche.
Il conto delle perdite se dovesse prevalere il sì. Il quesito referendario mira ad abrogare la norma dell’aprile 2006 tale per cui il capitale investito nelle società che gestiscono il servizio deve essere remunerato con una percentuale della tariffa che poi l’utente si ritrova in bolletta. È il famoso 7 per cento applicato ai costi del servizio, che sparirebbe.
Se vince il sì, il profitto da dividere tra gli azionisti non sarebbe più un “costo fisso” per il cittadino. E si eliminerebbe – dal punto di vista dei promotori del referendum – una pratica che fa a cazzotti con il rischio d’impresa, insito in qualsiasi azienda che si metta sul mercato. Da un punto di vista teorico-matematico, nulla dovrebbe invece cambiare per gli investimenti sulla rete, già previsti in voci di spesa a parte. Ma rimane il nodo di chi ci metterebbe i soldi per migliorie e manutenzione.
Se insomma verrebbe a cadere il profitto “assicurato” (pari almeno al 7 per cento) per gli azionisti, rimane un quesito: chi avrebbe interesse a investire in un’azienda che non remunera in modo garantito il capitale versato dai soci? Questo interrogativo – regole del liberismo economico da Adam Smith in avanti – potrebbe però valere per qualsiasi attività imprenditoriale e non solo per l’erogazione di servizi fondamentali, come quello dell’acqua.
E i fronti si dividono sul secondo quesito. Non è d’accordo Luigi Castagna, per Hera membro del consiglio d’amministrazione dal 2005 e presidente per il territorio. “Se quel 7 per cento non ci fosse più, il carico dovrebbe gravare sulla fiscalità generale perché, sia a livello nazionale che locale, le risorse pubbliche non ci sono. Normalmente un’azienda che decide di effettuare un investimento lo finanzia attraverso un mutuo. Noi invece ce lo assumiamo per intero e dunque è corretto che, nel tempo dovuto, quell’investimento venga remunerato. Se così non fosse, le disponibilità su cui poter contare sparirebbero”.
Castagna si pone in scia con le dichiarazioni di Emanuele Burgin, assessore all’ambiente della Provincia di Bologna (uno dei dissidenti del Pd), che riflette sulla posizione espressa dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, favorevole al no sul secondo quesito.
Sul suo profilo Facebook Burgin aveva scritto che, in caso di vittoria del sì, “si rischia il blocco dei servizi pubblici perché i Comuni non hanno i fondi. Il vero quesito per l’acqua pubblica è il primo (la cancellazione del 23 bis), il secondo potrebbe rivelarsi solo un’inutile ideologia”. Raggiunto telefonicamente più tardi ha confermato: “L’effetto immediato del sì sarebbe la scomparsa delle risorse private. Inoltre le tariffe schizzerebbero verso l’alto oppure gli investimenti non si farebbero più. Del resto, se gli enti pubblici non possono indebitarsi, allora chi ci mette il denaro? Di certo non Hera, che smetterebbe di investire”.
Come ribattono i promotori del referendum. “I profitti degli azionisti devono essere pagati da altre fonti, non dal 7 per cento che compare nella bolletta dei cittadini”, ribatte Sergio Caserta del comitato promotore per i referendum. “È un assurdo economico sostenere il contrario ed è destituito di qualsiasi fondamento affermare che il denaro per gli investimenti non ci sarebbe più. Questo denaro lo si ricava da una sana gestione economica di un’azienda. Ciò che il secondo quesito vuole abrogare è solo la percentuale sicura che va agli azionisti. In questo modo si diffondono solo paure infondate”.
La posizione del Movimento 5 Stelle. Anche Giovanni Favia, consigliere regionale per il Movimento 5 Stelle, si allinea a questa posizione parlando di “furbetti dell’acqua”. “Non dimentichiamo”, spiega, “che anche i partiti del centrosinistra fino a poco tempo fa erano contrari ai referendum sull’acqua. Adesso, cambiando opinione, stanno facendo marketing politico perché risulta più conveniente cavalcare l’onda del sentire comune di cittadini. Ma a fronte di tutto questo occorre ribadire un concetto: gli investimenti sulla rete idrica devono essere fatti dallo Stato attingendo dalle casse pubbliche. Non ci sono i soldi? Allora si devono ottimizzare i costi della cosa pubblica perché quel denaro deve essere a disposizione: l’acqua rientra nei beni essenziali che non possono essere né privatizzati né diventare oggetto di profitti assicurati”.