“È giusto. Sono colpevoli. È chiarissimo. E se ci sarà un terzo grado non potrà che essere di conferma della loro colpevolezza”. Ha assistito con il cuore in gola alla lettura della sentenza della Corte d’Appello e ora può sfogare il proprio pianto. Patrizia Moretti incassa questa seconda vittoria, dopo quella di primo grado, della sua personale battaglia per ottenere giustizia e verità sulla morte del figlio, Federico Aldrovandi.
Una battaglia iniziata a gennaio 2006 con l’apertura del suo blog, nel quale raccontò all’Italia intera “come è morto mio figlio”. Da un semplice caso di overdose o malore, come venne fatto passare dalle prime veline della questura di Ferrara, la vicenda assunse proporzioni nazionali. Se ne interessarono personalmente l’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti e il ministro dell’Interno Giuliano Amato. Partì il processo. E arrivò la condanna in primo grado per omicidio colposo. Quei tre anni e mezzo ai quattro poliziotti sono stati confermati ora in appello. Ma a Patrizia non basta.
“Dopo tutti questi anni – afferma – sembra ancora che il processo lo facciano a noi. Ogni volta che alla sbarra ci sono le forze dell’ordine gli imputati sono le vittime. Chiederò al Capo dello Stato che impedisca questo linciaggio”. E a Napolitano sa già cosa dire: “Chi uccide qualcuno non può più indossare una divisa, è pericoloso per i nostri figli e i nostri fratelli”, sostiene guardando Ilaria Cucchi e Lucia Uva accanto a lei.
Chi ancora è confuso è papà Lino, rimasto solo nell’aula di giustizia. “Abbiamo ricevuto oggi l’ultima carezza di Federico – dice sottovoce -; si sta male, perché mio figlio non potrà ritornare nemmeno dopo questo giorno. Ringrazio comunque tutti coloro che ci hanno sostenuto in questo cammino”.
Parla per la prima volta anche Stefano, il fratello minore. Aveva solo 16 anni quando vide i suoi genitori piangere e dirgli che Federico non sarebbe più ritornato. “È il secondo passo verso la giustizia per mio fratello. Sono felice nei limiti del possibile, perché lui non è qui”.