“Così come in ogni città c’è un carcere, una prefettura, una questura, la gente dovrà abituarsi all’idea che ci sia un centro di permanenza temporanea”, dichiarava il prefetto Anna Maria D’Ascenzo, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno durante la sua audizione dinanzi al “Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione”, in data 23 ottobre 2003. E per realizzare ciò, il prefetto prevedeva l’utilizzo di strutture già esistenti sul territorio: “Per accelerare la costruzione di nuovi centri abbiamo tentato anche di ricorrere ad edifici già esistenti, ristrutturandoli e trasformandoli in centri di permanenza temporanea. Non possiamo però far ricorso ad edifici carcerari che altrimenti ci verrebbero chiusi”.
Per evitare la chiusura, dunque, il prefetto spiegava ai deputati e ai senatori membri del Comitato parlamentare come occorreva procedere, usando un linguaggio diretto e senza infingimenti: “Dobbiamo, quindi, individuare dei centri simili a carceri ma che non siano propriamente tali”. Illustrava inoltre il prefetto le difficoltà concrete che il Ministero incontrava nella costruzione dei Centri di permanenza temporanea (oggi definiti: Centri di identificazione ed espulsione, ovvero Cie) nel territorio nazionale: “Voi sapete però che le difficoltà sul territorio sono molte: in linea di massima, né le regioni né gli enti locali e né, tantomeno, la popolazione desiderano la presenza di tali centri. Se mi è permesso un pessimo paragone potrei dire che l’immondizia la si vuole sempre a casa degli altri, mai nella propria. Ed effettivamente viviamo le stesse problematiche di chi deve realizzare una discarica”.
Ricapitolando: 1. I centri di detenzione per immigrati devono essere, secondo il Ministero, sostanzialmente delle carceri, senza che li si possa definirli tali; 2. Per poter costruire tali centri bisogna far ricorso a edifici esistenti, simili alle carceri.
E quali? Facile: i centri di accoglienza.
E’ dal 1998, da quando cioè la legge “Turco-Napolitano” istituì per la prima volta in Italia i Centri di permanenza temporanea, che diversi centri di accoglienza si sono trasformati, gradualmente, in centri di detenzione per immigrati (contribuendo così a rafforzare anche quegli imbrogli semantici che portano spesso gli italiani ad utilizzare, in modo interscambiabile, le espressioni “centro di accoglienza”, “Cpt” o “Cie”, come se fossero la medesima cosa). Anche le organizzazioni che gestivano inizialmente questi centri di accoglienza si sono rapidamente “convertite” in gestori di luoghi di detenzione amministrativa, senza aver dovuto, tra l’altro, apportare grandi modifiche architettoniche ai centri di accoglienza oppure alla composizione dei propri staff di operatori sociali.
Apprendiamo oggi dall’inchiesta di Repubblica-Espresso che il campo profughi di Palazzo San Gervaso a Potenza, costruito in fretta e furia per accogliere i profughi provenienti da Lampedusa, è divenuto segretamente, cioè senza che le istituzioni locali ne fossero a conoscenza, un Centro di identificazione ed espulsione, cioè un centro di detenzione per immigrati.
E’ accaduto lo stesso con il Cie di S. Maria Capua Vetere (da pochi giorni chiuso e sequestrato dalla Procura di S. Maria Capua Vetere dopo le violenze e i disordini che si sono verificati). Anche lì la caserma “Andolfato” fu destinata inizialmente all’“accoglienza” dei profughi tunisini che venivano allontanati da Lampedusa.
Cosa siano i Cie (un tempo chiamati ipocritamente Centri di permanenza temporanea) ormai lo sappiamo. Ce lo dicono le inchieste giornalistiche, le inchieste della magistratura e soprattutto le testimonianze degli immigrati reclusi, che denunciano gli orrori e le violenze quotidiane. Il punto, però, che spesso sfugge all’analisi di questi luoghi è un altro: come mai i centri di accoglienza per immigrati costituiscono quelle strutture adeguate a trasformarsi in centri di detenzione, ovvero, come affermava il prefetto, “centri simili a carceri”?
Questa rapida ed indolore trasformazione dei centri di accoglienza in strutture di detenzione amministrativa pone interrogativi di straordinaria attualità e deve, perciò, far riflettere tutti circa la degenerazione del “sociale”, dell’“accoglienza” e della “solidarietà” in concetti e pratiche funzionali alla repressione e alla formazione di circuiti di valore (cioè il business).