L’industria dell’acqua andrà incontro a crescenti profitti già nel prossimo anno, per questo è necessario puntare sulle compagnie del settore e adeguare la risorsa alle esigenze del mercato. Lo sostiene un rapporto della banca Usa Citigroup reso noto da Bloomberg
Il concetto è chiaro, oltre che diretto discendente di un’idea consolidata e ribadita con forza già due anni or sono nel corso del Forum mondiale di Istanbul in cui i grandi protagonisti dell’evento, dalla Banca Mondiale alle multinazionali dell’oro blu, avevano espresso la propria interpretazione con una certa, invidiabile, chiarezza. L’acqua è un bisogno primario, ma non per questo può considerarsi gratuita. Insomma, più che a un diritto vero e proprio assomiglia piuttosto a un bene di consumo come tanti. Lo stesso bene che arricchisce le casse dei signori della sete come Veolia, Suez, Rwe, Coca Cola, Danone e Nestlé, leader indiscussi di un settore che muove ogni anno un giro d’affari complessivo di 450 miliardi di dollari. E che, spiega oggi Citigroup, nel corso del prossimo anno dovrebbe andare incontro ad un incremento compreso tra il 4 e il 6%.
Puntare forte sulle compagnie del settore, insomma. Gli analisti della banca d’affari Usa non hanno dubbi. E in fatto di target si può allegramente variare. C’è chi imbottiglia e distribuisce, certo, ma anche chi si dedica ad additività non meno redditizie come la desalinizzazione o la raccolta e il trattamento dell’acqua generata dal processo di estrazione dei combustibili fossili. Ce n’è per tutti dunque, basta che il business, per dirla con gli analisti, sia in qualche modo “water-related”. Il resto, a cominciare dai diritti primari e dalle giuste compensazioni, è decisamente secondario.
Per avere un’idea del significato più profondo dell’intera faccenda, basterebbe forse concentrarsi sul significato di certe espressioni. Nell’analisi di Citigroup, riferisce Bloomberg, l’acqua va considerata come un “asset”. Un particolare non da poco. In altri termini non si parla di bene primario ma nemmeno di semplice materia prima, commodity, bensì di una vera e propria ricchezza. E siccome le quote di ricchezza sono fatte per passare di mano in mano ecco spuntare le cosiddette “water-related securities” ovvero i titoli finanziari legati all’acqua. Parliamo delle azioni delle compagnie del settore, scambiate in borsa come quelle di qualsiasi altra impresa. Ma non solo.
Ad emergere con forza ci sarebbe infatti un’altra categoria di prodotti. E sì, perché lo sfruttamento delle risorse idriche necessita di importanti investimenti e questi ultimi, ovviamente, hanno bisogno di essere sostenuti dalla finanza. Considerate il caso degli Stati Uniti: secondo una ricerca dell’Università dell’Oregon, spiega Citigroup, da qui al 2026 gli Usa dovranno spendere qualcosa come 335 miliardi di dollari per mantenere e migliorare le proprie reti idriche. Come si finanzia una simile impresa? Ma ricorrendo ai derivati, che domande.
“Gli operatori finanziari – scrive Bloomberg citando il contenuto del rapporto Citigroup – potrebbero impacchettare i ricavi futuri in asset-backed security (derivati costruiti collateralmente sugli assets stessi – ndr) scambiabili sul mercato. (…) Questi investimenti alimenterebbero la domanda di strumenti e materiali utilizzati per il trasporto e il trattamento dell’acqua spingendo al rialzo i ricavi per le compagnie che li producono”. In estrema sintesi, dunque, si tratterebbe di applicare un po’ di finanza strutturata per ottenere sul mercato quello che in circostanze normali si chiamerebbe prestito. Solo che come detto qui entrano in gioco i derivati e la pericolosa variabile dei ricavi “attesi” dove a far paura è soprattutto quell’aggettivo che implica una previsione per sua natura precaria, opinabile e dai contorni instabili.
Insomma, le tipiche caratteristiche che fanno gola agli speculatori. Per i quali il futuro prezzo della sete si trasformerebbe in una scommessa fin troppo attraente di fronte alle prospettive future. “Gli investimenti nel trattamento dell’acqua e nelle infrastrutture per la distribuzione – scrive ancora Bloomberg – sono stati mitigate da prezzi che, hanno notato gli analisti, sono troppo bassi per riflettere il reale costo dell’acqua”. Tutto chiaro? Disgraziatamente parrebbe proprio di sì.