L'indagine si è conclusa lo scorso luglio assieme a quella lombarda. Oltre 300 arresti che hanno svelato la struttura della mafia più potente del mondo tra la Calabria e la Lombardia. La Federazione antiracket italiana chiede intanto di essere ammessa come parte civile in entrambi i procedimenti. Il presidente Tano Grasso: "Per far capire agli imprenditori che non sono soli"
Un’aula bunker così piena non si ricordava dai tempi del processo “Olimpia”, negli anni novanta, che ha aperto uno squarcio sulla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. E’ iniziato stamattina il processo “Crimine” per i 161 indagati dalla Direzione distrettuale antimafia che, nel luglio del 2010, ha stroncato le principali famiglie mafiose reggine. Un’inchiesta intrecciata a doppia mandata con l’indagine “Infinito”, coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini.
Davanti al gup Giuseppe Minutoli, nella prima udienza preliminare hanno chiesto di costituirsi parte civile la Regione Calabria, la Provincia di Reggio, l’Anas e due associazioni antiracket: Sos Impresa e Federazione antiracket italiana. Quest’ultima farà la stessa richiesta domani a Milano, durante l’udienza del processo gemello ‘Infinito’. “La costituzione di parte civile delle associazioni antiracket – spiega Tano Grasso, presidente del Fai – vuole far capire agli imprenditori che non sono soli ma sono sostenuti dall’esperienza più che ventennale del movimento contro il pizzo”. “Non possono più esserci alibi – conclude – per l’omertà degli imprenditori lombardi”. Nonostante l’opposizione del collegio della difesa, il giudice si è riservato di decidere nella prossima udienza, fissata per il 20 giugno. Intanto, il procuratore aggiunto Nicola Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo, Maria Luisa Miranda e Giovanni Musarò hanno inserito nel fascicolo del processo nuovi atti relativi alle inchieste “Circolo formato” della Dda di Reggio e “Minotauro” della procura di Torino.
Con “Crimine”, gli inquirenti hanno svelato l’assetto della ‘ndrangheta confermando quanto avevano affermato, in passato, alcuni collaboratori di giustizia. Dichiarazioni che oggi trovano un riscontro nelle numerose intercettazioni telefoniche captate dai carabinieri del Comando Provinciale e della squadra Mobile.
Certamente si tratta di un assetto diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, non ci sono più un’accozzaglia di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.
Una testa pensante che è rappresentata dalla “Provincia” o “Crimine”, di cui fanno parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”. C’è poi il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella ricca regione del Nord Italia ma che dipendono, comunque, dalla Calabria dove continuano ad essere prese le decisioni importanti, come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Tra i 161 imputati anche l’ottantunenne Domenico Oppedisano, il “capo crimine” detenuto nel supercarcere di Parma.
Dalle carte è emersa la caratteristica unitaria della ‘ndrangheta. Don Mico Oppedisano non era certamente il “Totò Riina” calabrese. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre de 2009, in occasione della festa di Polsi, ma non poteva prendere decisioni autonome. Piuttosto era una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, spettava il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose. Mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.