Si chiama Michael Peterson. Ma come nome d’arte ha scelto quello di Charles Bronson, il giustiziere della notte. Anche se a lui piaceva più Charlton Heston (però gli hanno detto che era fuori moda). È il detenuto più famoso e violento del Regno Unito. Esiste veramente, come Vallanzasca. Solo che, fuori dalle sbarre, non ha combinato granchè. La sua “gloria” è tutta legata alla prigione. Dove fa sfracelli. È nato nel 1952 e ha passato 34 anni in galera, quasi tutti in isolamento. Perché mena come un fabbro. Minaccia. Sequestra le guardie.
La ragione? Come dice lui stesso (interpretato da Tom Hardy) nell’ottimo Bronson dell’ottimo Nicolas Winding Refn – ora che ha vinto il premio per la miglior regia a Cannes per Drive forse il suo talento danese non resterà più per pochi intimi – perché voleva diventare famoso. Sapeva di avere una vocazione, ma non sapeva quale. Da piccolo aveva “genitori decenti”. Quando ha iniziato a lavorare “non era poi così male”. Il matrimonio? “Non facevamo una brutta vita per una coppia del ceto medio”. Ma “non ti danno una stella nella Walk of Fame senza un po’ di sofferenza in cambio”. Ed ecco, quindi, che l’obiettivo della vita di Peterson-Bronson è essere lui stesso un’opera d’arte. La materia prima “dell’opera” è fatta di violenza e auto-rappresentazione. Sangue e messa in scena: due volti della stessa medaglia. Per “creare” a intensità estreme, lui deve stare in carcere. Solo dentro a una costrizione assoluta, all’interno di un limite quasi totale, emergono infatti gli istinti più forti di Peterson-Bronson. Che nel film si rivolge a un pubblico immaginario, su un palcoscenico immaginario, truccato da clown o con la faccia divisa a metà, con mimica teatrale.
Lui, che per davvero dipinge, che per davvero ha scritto Solitary fitness su come mantenersi attivi, ha anche per davvero “un suo pubblico”. Per gli italiani è uno sconosciuto, ma per i sudditi di sua Maestà è una celebrità. Su di lui sono stati scritti libri, articoli, girati reportage. Forse anche per questo Bronson, pur raccontando succintamente i fatti, essendo di produzione inglese, non si sofferma molto sulla trama ma lavora – come il suo protagonista – sulla costruzione di un’estetica perfetta. Su quadri visivi artificiosi e allo stesso tempo essenzialmente veri. La regia vuole esprimere il personaggio e il suo demone. La macchina da presa è ariosa, fa ampio uso di carrellate, la fotografia si nutre di colori nitidi, di grandangoli, le inquadrature sono curate in ogni minimo dettaglio, ma soprattutto il regista opta per un’eleganza fin de siècle nell’intera messa in scena. Scelta sottolineata inequivocabilmente dalla musica, quella della grande opera: Verdi, Puccini, Wagner.
Non ti prende per mano, Bronson: chi cerca un plot classico e tanta azione può guardare altrove. Per raccontare un personaggio che ha il bisogno (nichilista ma titanico) di trovare un ostacolo insormontabile (la galera) per esistere, Winding Refn si ricollega a un immaginario tardo romantico. Quando l’idea di “individuo” si consolidava e iniettava nella storia la sostanza della contemporaneità. Questo film sulla disperazione umana e sulla ricerca di unicità, è tessuto su immagini lontanissime da canoni correnti. Per questo Bronson sembra il punto zero di quello che siamo tutti. Per questo sono ancora più divertenti i tanti rimandi ad Arancia Meccanica (1972), dove Kubrick creava un mondo futuribile per trasporre domande eterne. È divertente, poi, constatare che quando Alex usciva di galera i suoi genitori lo avevano disconosciuto. Mentre qui, in una citazione densa di ironia, quando Michael esce (ma solo per un attimo, perché fuori dalla prigione la sua vita non è niente e lui non è niente, quindi vede bene di tornarci in fretta), i suoi genitori sono quasi orgogliosi. È diventato qualcosa. Ha preso forma. Ha espresso la sua vocazione amorale e trovato riconoscimento. Un film da vedere.