Tutto iniziò con un’esternazione poco felice fatta da un poliziotto di Toronto che, dando voce, purtroppo, a quel finto buonsenso, espressione di un sottile e millenario maschilismo, disse che “per evitare di essere stuprate, le donne non dovevano vestirsi come ‘slut’, cioè come puttane”. Il poliziotto, fra l’altro, fece il suo commento, lo scorso gennaio, di fronte ad un gruppo di studenti della York University, nell’ambito di un Forum sulla sicurezza: luogo ideale per finire in cinque minuti su Twitter e Facebook. A nulla servirono, dunque, le scuse e i tentativi di chiarire, in maniera più elaborata, il concetto espresso così malamente: la miccia era stata accesa e la protesta innestata. In pochi mesi, infatti, precisamente il 3 aprile, circa tremila persone sfilarono nel centro di Toronto unite in un gruppo che non lasciava adito ai fraintendimenti: “The Slut walk” – la marcia delle puttane.
A quella prima manifestazione, in pochissime settimane, se ne aggiunsero molte altre, in città americane e canadesi: Dallas, Asheville, Ottawa, Boston, Seattle, Chicago, Philadelphia, Reno, Nevada, e Austin. Sebbene non si tratti del primo movimento di protesta a sostegno delle donne vittime di violenza sessuale, è importante sottolinearne le novità che ne spiegano, in qualche modo, anche il successo dirompente. Durante i “cortei”, ciò che colpisce maggiormente è proprio l’uso del termine “slut” che ha un valore solitamente negativo per una donna ma che, in questo contesto viene, in un certo senso, rivalutato dal fatto che le donne se ne “appropriano” provando a privarlo della sua volgarità. Il concetto è quello che essere o apparire “slut” è una libertà delle donne e che, soprattutto, non è un “nulla osta” per la violenza. Durante le marce, infatti, “io sono una puttana” (per le donne) o “io amo le puttane” (per gli uomini) sono due fra gli slogan più popolari, solitamente impressi su magliette o su striscioni.
Molte polemiche e critiche, tuttavia, arrivano proprio dal mondo “femminista” che ritiene inopportuna la scelta di appropriarsi di un epiteto che comunque resterà negativo e legato ad una visione maschilista della sessualità. Secondo le femministe “tradizionali”, insomma, la Slut Walk è un movimento “anti femminista” perché, lungi dal reclamare la libertà delle donne di vivere la propria sessualità in piena libertà, senza per questo essere giudicate o condannate, cerca di “sdoganare” l’utilizzo di un termine denigratorio usato “contro” le donne e mai a loro vantaggio. Dal canto loro, le organizzatrici, insistono sul fatto che il principio del movimento è quello di condannare e cancellare una mentalità che colpevolizza le vittime di stupro facendole passare, spesso, per “complici” a causa di un modo di vestire o di comportarsi.
Sabato 11 giugno, ad esempio, è stata la volta di Londra dove, fra l’altro, non sono mancati riferimenti al caso di Dominique Strauss- Kahn con cartelli che dicevano “siamo tutte cameriere”. Una grande marcia è, intanto, in preparazione a Nuova Dehli, considerata la città piu’ pericolosa per le donne, in tutto il mondo; qui, infatti, avvengono, di media, uno stupro ogni 18 ore e una molestia sessuale ogni 14.