Società

Il referendum, la fame <br>e la rabbia

Quello che sto per dire, lo so, mi darà dei nemici. Mi procurerà l’antipatia di molti. E tuttavia, dopo le amministrative e i referendum, la tentazione di ritornare, come vili lumache, nel proprio guscio bavoso, già si sente. Gli italiani dell’impegno a singhiozzo sono pronti a tornare alla normalità, il loro piccolo sforzo lo hanno fatto, il rigurgito di coscienza civica adesso si avvia a spegnersi nella difesa del piccolo privilegio. E’ già accaduto con i festeggiamenti per l’unità d’Italia, del resto. Per due settimane, sull’onda di giornali e televisioni, non si è parlato d’altro. Poi, passata la festa, gabbato lo santo. E sì perché, fatte poche e doverose eccezioni, dell’unità nazionale, del divario tra Nord e Sud, della perpetua colonizzazione operata dal Nord sul Meridione, non se ne parla più. Con buona pace della Lega.

E però non è davvero proprio così. Perché se non ne parlano più media e politici, non è detto che non ci siano fuochi sotto le ceneri. Certo, pensavano che non accadesse, che non potesse accadere. Hanno atteso, con pazienza, che il 17 marzo scivolasse via, soffocato nelle pantomime pseudoistituzionali, affogato nelle lacrime di commozione e negli sberleffi degli idioti. Hanno atteso che il tempo, medico pietoso, diluisse la curiosità di chi non capiva, di chi non sapeva, di chi credeva alla storia scritta dai vincitori.

Con la perseveranza ottusa degli stupidi, hanno continuato a illudersi che potessimo ancora accettare qualunque inganno, qualunque propaganda. E si sbagliavano. Perché qui, in queste terre di insorti, temporaneamente assopiti dalle litanie televisive, l’orgoglio e il sangue caldo covano, covano, covano. E non si è più disposti a tollerare il paternalismo di chi, dopo averci saccheggiato, vuole anche colpevolizzarci. Non si è più disposti a tollerare il buonismo ipocrita che per decenni, mentre venivamo spogliati per vestire gli sfruttatori di turno, ci faceva cantare Chi ha avuto, ha avuto.

Il plebiscito nelle piazze di Napoli, per De Magistris, significa anche che non siamo più disposti a cullarci nelle menzogne, ad accettare che ci vengano raccontate favole a cui non sanno credere neppure gli sciocchi. E la favola più oltraggiosa, più insolente, più umiliante per i nostri cervelli, è stato quel “Piano per il Sud” con il quale questo governo sterile ha creduto di pigliarci ancora in giro. Il 28 settembre 2010 il premier, alla Camera dei Deputati, ha illustrato le iniziative in cantiere per il Meridione, con la solita faccia da piazzista e lo stile da imbonitore circense. Promesse, si capisce. Impossibili da mantenere, è chiaro. Tanto per tenerci buoni, nell’attesa di passare lo scoglio delle amministrative.

Ben lontano dallo spiegarci che fine hanno fatto i Fondi Fas, il premier esordisce sostenendo che dal 2002 al 2009 sono stati triplicati gli interventi nel Mezzogiorno. Sciocchezze, ovviamente, perché dal 2001 la spesa per gli investimenti al Sud, previsti nella misura del 45% della spesa pubblica, è stata drasticamente ridotta al lumicino. Sono stati attivati investimenti per il 32-35%, equivalenti a dieci miliardi di euro in meno all’anno. In dieci anni, uno scippo da 100 miliardi.

La parte del leone, in tutta questa pantomima, la fanno i soliti due protagonisti, le infrastrutture che dovrebbero essere la delizia del Sud e invece rappresentano sempre e solo una croce: la Salerno-Reggio Calabria e il fantomatico ponte sullo Stretto di Messina.

E’ noto anche ai bambini che gran parte di questa presunta autostrada è impervia, fatiscente e pericolosa. Dei complessivi 440 km della Salerno-Reggio Calabria (iniziata nel 1964: ben 47 anni orsono) soltanto 210 km sono percorribili, a rischio della pelle. Circa 174 km risultano appaltati e inattivi. Oltre 60 km non hanno né progetto esecutivo, né copertura economica. Già nel 2001, Berlusconi promise il completamento entro il 2005. Sono trascorsi 10 anni. E la favola continua.

E del resto, se si ha la faccia tosta di promettere “il sostanziale avanzamento di opere quali l’autostrada Telesina”, 71 km di collegamento tra Caianiello e Benevento, elencata già nel programma “Grandi opere” del 2001, e dopo 10 anni non si è mossa una pietra, perché tirarsi indietro di fronte alla promessa del completamento entro il 2013 dell’asse autostradale Ragusa-Catania? 68 km, costo previsto 900 milioni di euro, di cui 530 di quota privata e 370 di quota pubblica. A oggi, mancano 217 milioni di euro di stanziamento pubblico. Nel 2009 è stato firmato l’Accordo di Programma tra Stato, Anas e Regione Siciliana. Ma nulla di più.

Inutile parlare del fantomatico ponte o del potenziamento ferroviario: a colpi di chiacchiere non si costruisce niente e le risorse di cassa non ci sono.

In compenso, si sprecano le promesse riguardanti la lotta alle mafie: “Voglio sottolineare che tutte le nostre strategie di contrasto alla criminalità organizzata vanno considerate come il primo pilastro del piano per il Sud, perché la liberazione del territorio dalla morsa della criminalità organizzata è il presupposto indispensabile per lo sviluppo del nostro Mezzogiorno” . E via, con devastanti tagli di risorse alle forze dell’ordine e con la guerra all’autonomia della magistratura. Se non è lotta alle mafie questa!

Insomma, chiacchiere, promesse, niente altro. E alla fine, per quanto il cervello possa essere ottenebrato da veline, Isole dei famosi e Grandi fratelli, ad un certo punto scatta qualcosa, da qualche parte. E comincia il dissenso. Perché, per fortuna, la fame e la rabbia non si placano con le parole. Perché la fame e la rabbia non si ingannano con i sofismi della retorica. Perché la fame e la rabbia non s’imbrigliano con promesse mai mantenute. Ed esplodono, scavalcando perfino la mediocrità della moderazione tesa soltanto al prudente mantenimento dei propri privilegi.

E di colpo non è più vero che siamo piegati, colonizzati, intruppati, sconfitti, arresi. Vi siete sbagliati. Questa è terra di vulcani. Vulcani che possono anche sembrare addormentati, ma pervasi da ondate sotterranee di fuoco vivo, pronti ad esplodere. Pronti. Basta niente. Bastano nuove promesse su decenni di promesse mai mantenute. Basta la disperazione di chi si vede costretto, di nuovo, a fare la valigia per riuscire a sopravvivere.

Avete acceso la miccia. Sentirete che botto.