Grafico: Tassi di disoccupazione in USA, Giappone, ed EuropaConcorso per i lettori: a voi la guida della politica economica. E non si tratta di un favore.

A che punto siamo con l’economia? La ripresa mondiale procede a macchia di leopardo. Nei paesi in via di sviluppo, la crescita è al 7% (2010), nei paesi sviluppati al 3%, in Europa all’1,8%, in Italia all’1,2%.

In Europa, secondo gli indicatori forward looking (basati su valori futuri attesi) la crescita nel 2011 sarà intorno al 2%. Molto meno di quanto sarebbe necessario per riassorbire i 22,5 milioni di disoccupati nei 27 paesi dell’Unione in tempi ragionevoli (pochi anni). Questo perché la popolazione aumenta e il progresso tecnologico riduce i posti di lavoro a parità di Pil; infine, il dato sulla disoccupazione non tiene conto degli “scoraggiati” che hanno smesso di cercare lavoro con assiduità. A differenza che nelle altre aree sviluppate, in Europa – specie la zona dell’Euro, linea verde nel grafico visibile qui – l’occupazione non dà segni di ripresa.

L’Europa è anzi diventata il focolaio di instabilità dell’economia mondiale, avverte la Banca Centrale Europea. Perché al suo interno vi sono alcuni paesi con enormi deficit pubblici: gli stessi che hanno perso tanta competitività negli ultimi dieci anni, e che non crescono più (o quasi): Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia.

In Italia, la disoccupazione (scoraggiati e cassintegrati inclusi) continua a peggiorare: il Sud e i giovani stanno soffrendo più di tutti. La produzione industriale è ancora a -16% rispetto ai livelli pre-crisi. Le esportazioni crescono, ma meno delle importazioni, e meno che negli altri paesi; stanno crescendo – velocemente – i debiti delle famiglie e delle imprese. E’ vero che l’Europa ha tanti problemi strutturali. L’Italia pure. Qualche esempio:
– Poche grandi imprese = meno ricerca applicata, minore capacità di esportare globalmente.
– Infrastrutture e servizi pubblici non sempre come li vorremmo (esempi: i tempi lunghi della giustizia; modesta qualità della governance; ecc.).
– Scarsa concorrenza nei servizi e scarsa indipendenza delle autorità garanti = inefficienza.
– Alta pressione fiscale: mediamente al 42% del reddito, ma più alta per chi paga le tasse (dato che il 42% è una media fra quelli che pagano e quelli che non pagano).
– Un mercato del lavoro o troppo ingessato o con poche protezioni sociali.

Tuttavia – per quanto possa sembrare paradossale – i problemi strutturali’non sono quelli più importanti ed urgenti, da qui al 2015. Perché sono problemi “di offerta”: riguardano il modo (più o meno efficiente) di combinare i fattori produttivi (materie prime, lavoro, capitale, terreni, ecc.). La crescita economica, in tempi normali, dipende dalla evoluzione positiva di questa combinazione, che determina il potenziale produttivo di un paese. Oggi no. Il problema economico n.1 dell’Italia e dell’Europa non è un problema di offerta. Le fabbriche ci sono e non sono peggiorate. Il problema non è metterle in grado di produrre di più; è la domanda: i prodotti non trovano acquirenti. Non alcuni prodotti, non in alcuni settori (altrimenti sarebbe un problema “strutturale”), bensì in tutti i settori produttivi. È quindi inutile aumentare la produzione, o gli investimenti o l’efficienza: il maggiore prodotto resterebbe invenduto. Perciò le fabbriche producono meno di tre anni fa. La gente non spende, non perché ne ha abbastanza del consumismo, ma perché ha paura del futuro.

Non solo. Per il 2012 e 2013 ci siamo impegnati con l’Europa, ma soprattutto con i mercati finanziari, a ridurre il deficit del 3% del Pil, cioè tagliare almeno 40 miliardi in due anni. Da un lato, se non facciamo questa “Grande Manovra”, se rinneghiamo gli impegni presi – considerata la precaria situazione finanziaria della Grecia e i rischi di contagio – è probabile che tornino a salire i tassi d’interesse italiani (la differenza con i decennali tedeschi è salita, all’inizio della crisi, da un +0,30% a un +1,50%-2,00%, ma poi si è fermata lì). Si innesterebbe allora una spirale perversa fra aumento dei tassi, caduta del Pil, caduta delle entrate fiscali e tagli alla spesa: il nostro paese sarebbe finito. Sarebbe molto peggio che in Grecia: siamo troppo grandi per essere salvati dall’Europa. È bene capire fino in fondo, senza allarmismi, che stiamo su un piano inclinato: salendo, il piano diventa meno ripido e i pascoli sempre più verdi; scendendo, il piano diventa sempre più inclinato: in fondo ci aspettano i coccodrilli… a fauci spalancate! Fanno ridere quelli che propongono di rinviare (diluire) la riduzione del deficit fino al 2020 “a condizione di votare subito la manovra, per rassicurare i mercati”. Il mondo è troppo pericoloso, e la politica italiana troppo inaffidabile, per rischiare una cosa del genere. Si tratta di un tipico approccio Keynesiano, ma… Keynes aveva in mente paesi con un basso debito pubblicoFa dunque benissimo Tremonti – oggi – a dire no a chi gli chiede di aprire i cordoni della borsa! Farebbe ancora meglio ad anticipare a questa estate la definizione della Grande Manovra, per spingere subito verso il basso i tassi d’interesse: la vita sarebbe meno difficile per lo Stato, le famiglie e le imprese.

Però la Grande Manovra toglierà ancora potere d’acquisto alle famiglie italiane, riducendo ulteriormente la domanda, le vendite delle imprese. Caleranno i tassi di crescita (che il governo prevede nel 2013-14 all’1,5% e più: auguri!), la base imponibile, le entrate fiscali, l’occupazione… Insomma, il rischio è un’altra spirale negativa e recessiva. Anche la riduzione del deficit diverrebbe più difficile: un obiettivo che si sposta sempre in avanti e che impone a un paese esausto dosi crescenti di austerità. Basta vedere cosa è successo all’Irlanda: nel maggio 2010 abbracciò l’austerità, e venne considerata “l’Esempio” da seguire: a dicembre era già quasi fallita.

Riassumendo
: se l’Italia fa la promessa Grande Manovra sui conti pubblici, rischia di appesantire ulteriormente l’economia reale; se non la fa, rischia di far salire i tassi d’interesse. In entrambi i casi, la rincorsa al pareggio di bilancio, annunciato per il 2014, diverrebbe più affannosa, e i costi sociali più alti di quanto attualmente previsto. Ma la crisi in atto ha evidentemente una dimensione europea.

Fin qui i fatti, esposti seguendo il filo di una recente conferenza di Daniele Franco della Banca d’Italia, e i dilemmi strategici, che in questi giorni vengono discussi appassionatamente nei circoli tecnocratici e in quelli politici. Che fare? Quali soluzioni ai dilemmi della politica economica? Vogliamo dare un consiglio ai nostri politici e all’Europa? Che fareste voi, se foste il capo del governo italiano? La parola ai lettori.

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