L’uranio impoverito è uno dei materiali di scarto della raffinazione dell’uranio naturale e viene impiegato per alcuni tipi di armi a uso militare. Questi oggetti esplosivi sono costituiti da materiale radioattivo non fissile – che quindi non può esplodere con reazione nucleare a catena – trattato in modo da risultare molto volatile. Viene poi associato a una carica esplosiva convenzionale, di potenza anche modesta, finendo per disperdere materiale radioattivo nell’ambiente al momento dell’impatto con l’obiettivo. I proiettili all’uranio impoverito possono definirsi a tutti gli effetti – tranne che quello legale – delle piccole atomiche per la capacità di avvelenare persone e ambiente.
Questo materiale è usato comunemente per due motivi: uno, è un prodotto di scarto quindi costa meno, due, rende più pesante il proiettile e quindi risulta più potente al momento dell’impatto. Il problema è che oltre a uccidere chi colpisce, uccide anche chi spara. Di una morte diversa però, agonica, lunga. Che si consuma in stanze bianche di ospedale, dopo molte iniezioni di medicina chemioterapica, dopo aver perso i capelli, i denti, la forza dei muscoli e delle ossa. Insomma morte da cancro aggressivo.
L’uranio impoverito è stato usato nelle “missioni di pace” cui hanno partecipato i soldati italiani nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq. E ha già ucciso, oltre alla popolazione autoctona, più di 190 giovani militari mentre oltre 2.500 stanno lottando fra la vita e la morte, per guarire. E non dimentichiamo chi si ammala “stranamente” in Italia, perché vive vicino ai poligoni di tiro.
Nel 2001, il procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia Carla Del Ponte spinse affinché i bombardamenti all’uranio impoverito della Nato nei Balcani venissero considerati crimini di guerra. La sua posizione, però, non passò per la mancanza di un trattato ufficiale che bandisse questo tipo di armi (che invece esiste ad esempio per quelle chimiche e batteriologiche) e di leggi internazionali che ne vietassero l’uso.
Antonello Taurino ha il piglio del saltimbanco, anche se fare l’attore comico per lui a volte è faticoso. Non ama certa politica del teatro: chi conosci, chi voti, le mafiette. Non fa “l’amicone”, non sa “brigare”. Un giorno s’imbatte per caso nella vicenda dell’uranio impoverito. Un ragazzo del suo paese, amico d’infanzia militare tornato dal Kosovo con problemi alla tiroide, gli racconta una storia che fa gelare il sangue. Fino a quel momento aveva letto solo qualche notizia confusa sui giornali. All’improvviso scopre una realtà nascosta e vuole capire, saperne di più.
Inizia a informarsi e a chiedersi: perché quel militare cita un dato che contrasta con quella sentenza? Perché quella pubblicazione scientifica dimostra la tesi opposta alle dichiarazioni di quel politico? Intraprende una ricerca personale che dura due anni e mezzo. E man mano che approfondisce sente prepotente il desiderio di raccontare questa storia. È un’onda che affiora dalla coscienza e sbatte forte contro gli scogli delle sue convinzioni, levigandole e affinandole, attraverso la presa di consapevolezza. In un certo senso apre gli occhi.
Così scrive un testo e debutta, col titolo Miles gloriosus… ovvero morire d’uranio impoverito, il 16 maggio 2011 al Teatro della Cooperativa di Milano insieme al musicista Orazio Attanasio. Prima del debutto fa delle date di prova in centri sociali, circoli Arci, alla presenza di amici. A inizio aprile, durante una di queste date, Antonello viene avvicinato da un uomo. È il parente di una vittima che gli chiede di replicare lo spettacolo nella sua città. Antonello accetta con piacere. L’accordo con l’assessore locale si trova per una serata di giugno, proprio nei giorni del voto referendario, quando gli italiani dovranno esprimersi anche sulle centrali nucleari. E in Puglia, nella sua Puglia.
Ma accade che un eminente politico locale sconsiglia all’assessore in questione di fare lo spettacolo. Il motivo? La violazione della segretezza dei lavori dell’attuale Commissione parlamentare. Ma la motivazione non regge, perché lo spettacolo si basa su dati estrapolati da pubblicazioni scientifiche, testi già editi o resoconti delle sedute della Commissione stessa pubblicati sul sito del Senato. Il “consiglio” però sembra aver avuto i suoi effetti dissuasivi, perciò la data salta. Ora, il politico in questione pare dichiari di non essersi mai espresso contro lo spettacolo; la sensazione di Antonello è che però “il messaggio sia passato” perché iniziano a dirgli che non si può andare in scena per problemi tecnici, motivazione mai addotta prima.
Niente paura: il nostro saltimbanco è de coccio e non si arrende. Sente che lo deve a se stesso, ma soprattutto a tutte le vittime e i parenti delle vittime che in questi anni di ricerca ha incontrato, ai quali ha stretto la mano. Il momento forse più intenso di questa ricerca è stato quando il padre di un militare deceduto gli ha detto col cuore a pezzi: “Avrei preferito che fosse morto a Nassiriya”. Il dolore insopportabile di chi ama, che quasi avrebbe preferito una morte veloce che vedere il proprio figlio consumarsi giorno dopo giorno in un letto d’ospedale.
Allora ve lo racconto io lo spettacolo. Si svolge su due livelli: il primo è la vicenda dei soldati morti a seguito delle missioni di pace degli anni ’90. Il secondo, più leggero, è la storia di due teatranti un po’ cialtroni che faticano a lavorare come artisti e ripiegano suonando ai matrimoni. Ma i due, con l’aspirazione a “riportare nelle sale il teatro civile” cercano la tragedia “libera” da raccontare, su cui i grandi del “teatro civile” – Baliani, Celestini e Paolini – non abbiano ancora fatto uno spettacolo. Ardua impresa. Ce la faranno?
Se v’interessa va in scena il domenica 26 giugno al Leoncavallo di Milano. Alla faccia di chi ci vuole male.