Beata ignoranza! L’antico adagio varca l’oceano e torna, senza onore né gloria. Dal mal interpretato “so di non sapere” di Socrate, negli Stati Uniti l’ignoranza ha un discreto consenso. Considerata, a seconda dei casi, come “madre di tutti i mali” o “fonte di felicità”, ecco che qualcuno si è spinto sino a farne una disciplina.
La cosa sembra un po’ bizzarra: come faccio a studiare ciò che non so? Eppure questa scienza dell’ignoto e dello sconosciuto ha trovato un suo fondatore, un nome e anche un certo seguito. Forse è solo un segno del genius loci: non a caso l’America è la nazione più cospirazionista e complottista che ci sia. Comunque l’agnotologia (neologismo dal greco agnosis, ignoranza appunto) è stata “creata” nel 1992 da Robert Proctor, storico della scienza di Stanford.
E oltre a studiare ciò che non si sa, mira ad analizzare la maniera in cui l’ignoranza è prodotta, preservata e diffusa dalla società. Ovvero: il perché e il come di ciò che ignoriamo. Ma se non so una cosa, come faccio a sapere il perché non la so? Gli adepti di questa disciplina (filosofi, sociologi e storici della scienza) richiamano il dibattito pubblico e come vengono utilizzati dati irrilevanti per tacere quelli importanti (dall’industria del tabacco alle aziende che inquinano). Mostrando come, una volta immesse informazioni faziose o pseudo-scientifiche nel dibattito, sia molto difficile sfatare la parvenza di verità con cui vengono accolte.
Ora, il tema dell’ignoranza culturalmente costruita è un tema serio e degno di tutte le attenzioni. Perché, in continuazione, siamo soggetti a questo inquinamento culturale: pensiamo ai nostri politici che sciorinano dati e cifre senza fondamento. O anche alle trasmissioni che spiegano tutto con gli ufo, gli alieni o le antiche sapienze perdute.
Ma l’impressione è che non si colga il centro della questione. Non è infatti ciò che non so, ma ciò che so perché mi viene detto solo quello, mentre mi è taciuta una parte importante. Del resto non è una grande novità. Prendiamo i trattati di Aristotele o di Platone sulla retorica, gli scritti di Giuliano l’apostata, la “dissimulazione onesta” e i trattatelli di propaganda politica, da Machiavelli in poi.
Capiremmo allora che non è l’ignoranza il punto fondamentale, bensì la verità. O anche la sua alterazione in “verità avvelenata” (come si è espressa Franca D’Agostini nel bel libro che le ha dedicato, da Bollati Boringhieri). E forse capiremmo che non abbiamo bisogno di una scienza dell’ignoranza che ci viene dall’America. Ma di una vecchia e sana consuetudine dei filosofi greci: quella di chieder ragione, di insegnare ad argomentare e perciò a pensare. Che, in definitiva, altro non era che l’essenza della democrazia.