Cosa rimarrà di Pontida? Un’unica frase, a mio avviso: l’ammissione del Senatur. “Se domani si va a votare vince la sinistra” e, dunque, non si rompe col premier. Al massimo si va a un governo tecnico con l’entità mitologica che di solito è definita ‘tutti quelli che ci stanno’ per cambiare la legge elettorale: il porcellum del leghista Calderoli è infatti indigesto proprio alla Lega. Questo sottotesto è l’altro dato politico degno di nota.
Le richieste vagamente minacciose fatte dai dirigenti della Lega al popolo del pratone diventano così il refrain di venti anni di proclami a cui non è mai seguito nulla. Se il Governo cadesse questa settimana, il processo attuativo del Federalismo si bloccherebbe senza risultati degni di nota.
In Italia, però, la cattiva amministrazione non porta necessariamente alla bocciatura degli elettori, così come la buona amministrazione può non portare al consenso. Il tramonto della Lega, da molti preconizzato specie dopo Pontida 2011, nasce altrove: nella fine della narrazione leghista.
La parola ‘narrazione’ è stata spesso oggetto di ironie negli ultimi tempi: in realtà è però il cuore della costruzione di consenso dell’Italia berlusconiana e, forse, della recente storia della (comunicazione) politica nel mondo occidentale. Per governare serve una storia, un sogno o un obiettivo facilmente descrivibile. Un’identità, insomma. A Gemonio come a Washington. Nelle stanze di Via Bellerio come nello staff di Obama.
La Lega deve aver studiato Vladimir Propp, antropologo russo, che ha illustrato come le fiabe, i racconti, le narrazioni, fossero legati a uno schema strutturale consolidato nel tempo, basato su 31 costanti. I primi processi educativi sono legati alle narrazioni. L’essere umano è dunque abituato a questo schema: chi, in politica, sa raccontare meglio degli altri ha più possibilità di vincere.
La Lega è stata fortissima fino a quando è stato possibile immaginare un traguardo visibile (il federalismo, con l’occhiolino alla secessione) e fino a quando ha potuto sostenere questo traguardo attraverso narrazioni interdipenenti, tutte a sostegno del raggiungimento dell’obiettivo: citando Gianluca Giansante, la contrapposizione fra Nord produttivo e Sud assistito e, insieme, l’intolleranza verso il diverso, poco importa se straniero o meridionale.
La forza di queste narrazioni è stata dirompente da aver portato alla creazione di un’identità che, culturalmente e geograficamente, non è misurabile: alla domanda “che cos’è la Padania”, sono certo che potremmo raccogliere una risposta diversa per ognuno degli elettori della Lega Nord.
Il partito di Bossi ha dilapidato venti anni in venti mesi. Le narrazioni padane, in poco tempo, sono crollate l’una sull’altra.
Prima è saltata la contrapposizione tra Lega di lotta e Lega di governo, e la storia dei ministeri al Nord ne è la prova più plastica e autolesionistica: un partito che ha costruito la sua identità sulla lotta alla burocrazia ora chiede di spostarne i simboli nel suo territorio. Per non parlare, poi, della battaglia in difesa delle Province.
Subito dopo gli amministratori locali, come i ministri, hanno improvvisamente dimostrato di conoscere perfettamente i meccanismi della lottizzazione politica: dalle infiltrazioni mafiose nella ricca provincia, ieri ammesse addirittura da Bossi a Pontida, fino alla pressione per entrare in aziende a partecipazione pubblica, nelle giunte e negli staff politici: la Lega, al Nord, utilizza le stesse tecniche della Democrazia Cristiana (un’equazione devastante se solo si avesse la forza di dimostrarla) e solo l’imperizia dell’opposizione non ha ancora svelato il mistero. Un altro motivo per cui sono convinto che l‘inner circle abbia paura di rompere con il Pdl è che la sua verginità politica finirebbe il giorno dopo, travolta da una macchina del fango già pronta a raccontare di sprechi e ruberie al Nord.
E poi, in breve distanza e negli ultimi giorni, i dati sull’evasione Irpef – 17.4% al Nord, 9.6% al Sud – e quelli Caritas sul Pil prodotto dagli stranieri, 11%, smontando da un lato il mito dei meridionali ladri e arrufono, dall’altro della necessità degli immigrati per la sopravvivenza del nostro sistema economico. E se i dati non fossero sufficienti, basta il buon senso: la moglie di Bossi è siciliana; lo staff di Maroni è di Benevento; Rosy Mauro, vice Presidente del Senato e bossiana al 100%, è della provincia di Brindisi e soprattutto le aziende del Nord produttivo vivono grazie al lavoro di meridionali e stranieri.
Il colpo di grazia è arrivato con le ultime elezioni amministrative: le vittorie di Pisapia e De Magistris raccontano un’Italia che si è convinta che la buona amministrazione non sia esclusiva della Lega e che sia possibile anche a sinistra.
Bossi ha dunque perso gli argomenti: senza l’efficienza resta il razzismo e la paura; senza l’attacco al centralismo e agli sprechi resta un partito che non si differenzia dagli altri; senza il federalismo e senza la forza per organizzare la secessione, la Lega non ha più ragione di esistere.