L'International Programme on the State of the Ocean (Ipso) ha portato a termine una ricerca che per la prima volta elabora un approccio multidisciplinare allo studio dei grandi mari del pianeta. I risultati sono "traumatici" a causa di pesca, inquinanti come la plastica e alte concentrazioni di CO2
Secondo i ricercatori, infatti, “la vita negli oceani rischia di entrare in una fase di estinzione di specie marine senza precedenti nella storia umana”. Una fase che sta già facendo sentire i suoi effetti anche sugli esseri umani, responsabili, stando agli esiti della ricerca, delle attività che danneggiano gli oceani. “Confrontando le nostre ricerche – ha spiegato Rogers – ci siamo resi conto che i cambiamenti stanno avvenendo a un ritmo molto più veloce di quanto noi stessi pensassimo”.
L’esito del confronto tra biologi marini, tossicologi, esperti di barriere coralline e ittiologi è che i “nemici” degli oceani sono l’aumento della temperatura marina, l’inquinamento, l’acidificazione dell’acqua e l’eccesso di pesca. I cambiamenti in corso riguardano, per esempio, lo scioglimento delle calotte polari, l’aumento della concentrazione di metano nell’acqua marina e l’aumento del livello dei mari.
Tra i fenomeni osservati dagli scienziati, c’è l’impatto degli inquinanti: particelle di plastica e di altre sostanze tossiche si depositano sul fondo dei mari, entrando nella catena alimentare attraverso pesci e altri animali che si cibano di quello che trovano sul fondo. Non solo: è stato registrato un aumento della concentrazione di CO2 negli Oceani, a livelli ormai superiori a quelli che secondo gli scienziati sono stati responsabili dell’ultima grande estinzione di specie marine, 55 milioni di anni fa. Non è chiaro, o almeno non ci sono prove conclusive, se l’aumento sia dovuto alla crescita della CO2 nell’atmosfera, a causa delle attività umane, ma secondo gli scienziati dell’Ipso è molto probabile che ci sia un nesso tra le due cose. Alcuni fenomeni, come l’aumento dell’acidità delle acque o il rilascio del metano “imprigionato” negli oceani, secondo gli scienziati sono legati ai cicli climatici della Terra. Ma sarebbero anche aggravati, in velocità e quantità, dall’impatto delle attività umane.
Le ricette per cercare di uscire da questa trappola sono chiare, secondo l’Ipso: ridurre l’impatto ambientale della pesca, soprattutto di quella di alcune specie, ormai al limite o oltre il limite del rinnovamento biologico; estendere le aree marine protette, dove le attività ad alto impatto ambientale sono vietate; ridurre le emissioni di CO2; mappare e poi ridurre le fonti di inquinamento marino, soprattutto per la plastica, i rifiuti umani e i fertilizzanti agricoli che finiscono nel ciclo delle acque e alimentano crescite infestanti di alghe.
“Al contrario di altre generazioni umane sappiamo cosa bisogna fare adesso – ha commentato Dan Laffoley, uno degli scienziati che hanno partecipato allo studio –. E quello che va fatto, occorre farlo subito se vogliamo proteggere il cuore blu del nostro pianeta”.
Ogni mare e ogni oceano sul nostro pianeta è parte di un grande Oceano globale, dice l’Ipso sul suo sito web presentando il proprio lavoro: “Questo oceano è come il sistema circolatorio della Terra: compie molte funzioni vitali che rendono il pianeta abitabile e noi umani non possiamo sopravvivere senza di esso. Oggi l’Oceano è in uno stato di salute molto critico”. E i governi non possono dire di non esserne al corrente.
di Joseph Zarlingo – Lettera22