E così, a riportare acriticamente la notizia si sono affrettati il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Messaggero, l’Unità, La Stampa, etc.
Unicamente il Sole 24 Ore è riuscito a scrivere qualcosa che somigliasse a un articolo, più che a un comunicato stampa.
Saverio Romano, da pochi mesi Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, ha commentato: «Con orgoglio possiamo annunciare di essere il primo paese produttore di vino al mondo, avendo superato anche in quantità prodotta la Francia… Possiamo ancora crescere, anzi dobbiamo farlo… Nei prossimi tre anni il vino italiano potrà contare su un budget complessivo di quasi 500 milioni di euro da spendere sui Paesi Terzi per sostenere le vendite e promuovere l’eccellenza dei nostri territori».
Consideriamo quanto è stato affermato: sebbene suoni come una prima volta, non lo è. Difatti è già accaduto che l’Italia abbia prodotto più vino della Francia. D’altronde non è che oggi l’Italia abbia superato la Francia producendo più vino, ma piuttosto non producendone di meno (e di più pregiato).
Infatti dopo aver prodigato sussidi per piantare vigna ovunque, da qualche anno la Comunità Europea eroga sussidi per spiantare. Oltre a dare sussidi per le annuali distillazioni di “crisi permanente”: parte delle uve viene distillata a fini alimentari per contrastare l’eccesso di produzione. Però, col nuovo regolamento dell’Organizzazione comune del mercato (la cosiddetta Ocm), i sussidi per la distillazione saranno gradualmente eliminati. Lasciando un mercato “drogato”.
E l’Italia del vino si troverà una capacità produttiva che, grazie all’orgiastica furia d’impianto degli anni Novanta, è ben più grande della capacità commerciale. Sicché non poche bottiglie resteranno, come già restano, invendute: in una nazione il cui consumo pro capite di vino è pari a 1/3 di quello che era trent’anni fa. Fortunatamente c’è l’America che compra. E in futuro, la Cina e l’India.
Siamo infatti il paese che esporta più vino al mondo. Anche in questo abbiamo battuto la Francia, che però trae molto più profitto da quello che esporta: nel 2010 l’Italia ha esportato oltre 20 milioni di ettolitri (quasi il 50% della produzione) per 3,9 miliardi di euro di fatturato, mentre la Francia ha ricavato ben 6,9 miliardi di euro esportando 13,5 milioni di ettolitri.
Eppure, avvisa la Coldiretti, abbiamo battuto la Francia anche nella quantità di «riconoscimenti… con 504 vini a denominazione di origine controllata (Doc), controllata e garantita (Docg) e a indicazione geografica tipica (Igt)». Come abbiamo già scritto, una singolare parte di questi riconoscimenti (che sono peraltro più di 504, e continuano ad aumentare), è stata ottenuta frettolosamente negli ultimi due anni. Ciò al fine di evitare l’iter d’approvazione europeo previsto dalla Ocm che ha riformato tutto il settore vitivinicolo.
Fra le nuove denominazioni spicca la pregevolissima Doc Venezia, che si sarebbe potuta estendere dal Canal Grande al Canale della Giudecca, e una prossima geniale Doc Roma: con vigne entro il Raccordo Anulare, e Grand Cru nella fascia ZTL.
Dunque, nonostante i “riconoscimenti”, l’Italia esporta molto vino sfuso (non in bottiglia) a prezzi molto bassi.
«Il primato della produzione è un primato di cui non andare fieri» commenta il Prof. Mario Fregoni, fra i massimi esperti di viticoltura al mondo. “È assurdo essere fieri della quantità della produzione, quando poi si deve toglierla dal mercato. Bisognerebbe puntare maggiormente sulla qualità e sulla specificità del prodotto. Da decenni c’è uno slittamento della viticoltura dalla montagna alla collina, e dalla collina alla pianura. La viticoltura di montagna è scomparsa. C’è la viticoltura di pianura che consente di produrre a prezzi più bassi. E occorre proteggere quella di collina. Perché se ad esempio si dovessero liberalizzare nel 2015 gli impianti della vite, come da regolamento comunitario, in molti andrebbero a produrre dove si spende di meno. Quindi si produrrebbe sempre meno vino di qualità. E tutta la struttura vinicola italiana andrebbe a scatafascio“.