Potrebbe essere la sentenza che mette fine alle class action negli Stati Uniti. Potrebbe essere la sentenza che pone le grandi compagnie al sicuro da risarcimenti milionari per discriminazione. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha, infatti, respinto la richiesta di avviare una class action nei confronti di Wal-Mart, il maggior gruppo al mondo di vendita al dettaglio, accusato di aver discriminato le sue dipendenti di sesso femminile. Alla causa avrebbe potuto aderire più di 1 milione e mezzo di lavoratrici della multinazionale: la maggiore class action nella storia degli Stati Uniti. Ma, secondo i giudici, “non ci sono prove significative che WAL-Mart abbia agito seguendo una politica generale di discriminazione”.
In realtà la decisione della Corte è più sfumata. Tutti i nove giudici si sono detti d’accordo sul fatto che la causa poteva contemplare esclusivamente una modifica delle pratiche discriminatorie, e non anche una richiesta di risarcimento in denaro. Ma i giudici si sono divisi – i 5 conservatori contro i 4 liberal – sull’esistenza o meno della discriminazione. Secondo i conservatori, non esiste prova che Wal-Mart abbia discriminato. Come ha scritto nella sentenza Antonin Scalia, pilastro del conservatorismo giudiziario americano, Wal-Mart ha 3.400 punti vendita negli Stati Uniti e una politica esplicita di lotta alla discriminazione, ma lascia anche molta discrezione – nelle assunzioni, promozioni, orari – ai propri manager. Quindi, se errori ci sono stati, se qualche donna si è sentita discriminata, dipende dalla particolare situazione e non dalla politica aziendale.
I 4 giudici liberal hanno invece ritenuto che le prove della discriminazione siano davanti agli occhi di tutti. Le donne, a Wal-Mart, rappresentano il 70% della forza-lavoro, ma soltanto il 33% dei dirigenti. I loro salari sono, a parità di posizione e anzianità, più bassi di quelli degli uomini. Spesso, persino nei documenti ufficiali dell’azienda, le donne sono identificate come “ragazze” e “little Janie Qs”. Secondo Ruth Bader Ginsburg, che ha scritto la relazione di minoranza a nome dei giudici liberal, “la pratica di delegare vasti poteri ai supervisori, in materia di personale” ha condotto a un vero e proprio sistema discriminatorio a danno delle donne.
La tesi non è però passata, e ora Wal-Mart festeggia lo scampato pericolo. “E’ una vittoria importante per Wal-Mart – ha detto Theodore Boutrous Jr., il legale della società -, ma anche per tutto il business americano”. Con Wal-Mart festeggiano infatti anche Costco, la più grande catena di ipermercati all’ingrosso, la regina delle banche, Goldman Sachs, il gigante dell’elettronica, Toshiba, e Cigna Healthcare, una compagnia di assicurazione. Tutte rischiavano l’apertura di rischiosissime azioni legali collettive, che appaiono ora molto più improbabili. E’ invece bruciante la delusione delle donne che hanno intrapreso l’azione legale. “Quando tornerò al lavoro, domani, dirò alle mie compagne che la lotta continua”, ha detto Christine Kwapnoski, una delle querelanti. E promette di continuare la battaglia anche Betty Dukes. Fu lei, nel 2001, a mettere in moto la causa. Cassiera per sette anni nel punto vendita di Pittsburg, California, lamentò di non aver avuto la possibilità di migliorare posizione e reddito, di essere stata esclusa dai corsi di aggiornamento, di essere stata punita per futili motivi. “Volevo solo fare qualche soldo in più”, ha spiegato la Dukes, attribuendo i suoi sogni infranti al fatto di essere nera, ma soprattutto donna. “Ora più che mai è necessaria una legge che riduca le differenze di salario tra uomini e donne”, ha detto la leader democratica della Camera, Nancy Pelosi, all’annuncio della sentenza. Ma molti, nello stesso movimento femminista, ritengono che da ieri i diritti delle donne americane siano più deboli e incerti.