Dell’inizio col mio rapporto col cibo, vero o falso che sia, io non ne ho memoria. Certo, nel crescere e nel sentire ripetere da tutta la famiglia la mia fortuna a non essere nato in tempo di guerra e che “comunque si sarebbe speso meno a comprarmi una giacchetta”, ho cercato una mia personale risposta a questa fame perenne che, come sapete, ho trovato nel fare di mestiere il cuoco.
Niente è valso a farmi cambiare idea, tradendo così le aspettative di un padre e di una madre che, come tutti i genitori di quegli anni, sognavano un figlio dottore o almeno con un sicuro impiego, che in effetti mi fu trovato dentro un istituto bancario dove, pensate un po’, la mia nonna portava tutti i giorni i giornali dalla sua edicola nel centro di Firenze e dove, per simpatia, aveva un quotidiano intrattenersi per qualche minuto con il presidente di quell’importante banca cittadina.
Era il 1973 e i mie diciannove anni, con tutte le mie certezze, mi fecero dire no senza nemmeno un grazie ma con urli e berci, quasi mi avessero offeso in maniera indelebile con quel posto in banca che bypassava ogni regola etica che proprio loro mi avevano insegnato.
Uscii di casa sbattendo la porta per raggiungere pochi minuti dopo amici che abitavano lì vicino e che, nel vedermi imbronciato, per placarmi e gratificarmi mi interrogarono su cosa gli avrei cucinato per pranzo. Aprii quel frigorifero che, per quanto mi riguardava, era la cosa più vicina alla Comune di Parigi con cui avevo a che fare spesso e volentieri in quel periodo di ragionamenti: cinema, teatri condivisi e tutto il leggibile a disposizione nelle ore in cui la nonna mi lasciava da solo nel suo chiosco dove il tempo passava veloce, a leggere di tutto e di più.
Nella foto, una ricetta tratta dalla rivista La Cucina Italiana numero 6 del giugno 1970. Per ingrandire clicca qui