Dai Wu Ming a Gianni Celati, in molti a Bologna compresero che qualcosa si stava muovendo dopo gli anni difficili dell’era Cofferati. In seguito all’ennesimo sgombero, con la nuova amministrazione universitaria guidata dal rettore Dionigi, Bartleby trova finalmente una casa, uno spazio assegnato dall’università in via San Petronio Vecchio. In questa nuova sede, dal marzo 2010 le iniziative del collettivo politico aumentano, dalle piazze ai dibattiti, concerti di musica classica con i musicisti del comunale e del conservatorio, reading e presentazioni, laboratori teatrali e seminari. Nasce una vera e propria emeroteca di riviste storiche frutto di una donazione del poeta Roberto Roversi, affiancata dal primo festival italiano delle riviste indipendenti. Eventi rigorosamente gratuiti e aperti alla città.
Ora quest’esperienza è messa a rischio. A settembre scade il bando di assegnazione dell’università, e l’ateneo non sembra intenzionato a rinnovare la convenzione. Il collettivo si è mobilitato scrivendo un appello e raccogliendo le firme di buona parte del mondo politico e culturale della città, scrittori come Carlo Lucarelli e Ermanno Cavazzoni, consiglieri comunali, segretari della Cgil, spazi sociali, associazioni, collettivi, artisti, studenti, docenti e cittadini, tutti schierati per chiedere che un’esperienza come questa continui a vivere negli spazi di via San Petronio vecchio. Interrogati sul perché del mancato rinnovo della convenzione gli studenti rispondono: “Non riusciamo a capire perché proprio in questa fase nuova, di cambiamento, l’università voglia fare un passo indietro. Da tempo si parla di modelli di integrazione tra cittadini e studenti, noi siamo una scommessa riuscita”.
Il prorettore Nicoletti ha dichiarato che lo spazio va liberato perché nell’area inizieranno dei lavori, ma gli studenti non ci stanno e replicano: “I lavori non riguardano la nostra parte dello stabile, e se sarà così si tratta solo di una scelta strumentale. Ancora una volta si vuole aggirare una questione politica gestendo un piano puramente tecnico”. E aggiungono: “Noi ci siamo sempre battuti contro la dismissione dell’università. L’anno prossimo ci saranno meno corsi di laurea, un taglio drastico all’offerta formativa e alle borse di studio. La risposta dell’università è chiudere spazi di libertà e cooperazione tra studenti”.
Tra i firmatari c’è tutto il panorama degli scrittori bolognesi. Abituali frequentatori di Bartleby, in occasione dello sciopero del 6 Maggio il collettivo Wu Ming si espresse pubblicamente sulla situazione politica e culturale della città. Wu Ming 4, in merito alla vicenda non ha dubbi: “Bologna e in particolare il suo ateneo sono davanti a un punto di svolta. Erano molti anni che dagli studenti dell’Università di Bologna non nasceva un’esperienza significativa, in grado di rivolgersi alla città, di proporsi come luogo d’incontro, iniziativa e dibattito culturale. Bartleby ha dimostrato che gli studenti, invece di essere soltanto “mandria” transumante, sanno concepirsi come soggetto della vita culturale cittadina”.
In merito alla possibilità di un intervento delle istituzioni cittadine Wu ming precisa che è l’università per prima a doversi fare carico di un’esperienza come quella di Bartleby: “Se Bologna vuole continuare a essere un polo universitario attrattivo, dopo lunghi anni in cui la città ha perso parecchio del suo smalto, allora non c’è alternativa: alle esperienze più interessanti e ricche d’iniziativa va dato spazio e margine di manovra. Viceversa, un segnale di chiusura da parte del rettorato, o di semplice scaricabarile sull’amministrazione comunale, dimostrerebbe una mancanza di volontà alla valorizzazione di ciò che già c’è e che funziona nell’ambito studentesco. Sarebbe uno spreco inutile. Se poi la motivazione di un tale rifiuto dovesse essere l’irriducibilità degli studenti alle logiche di sudditanza e quieto vivere accademico, lo spreco sarebbe doppio. Una nuova generazione che pungoli al cambiamento e alla trasformazione dell’università italiana è qualcosa di cui il Paese ha soltanto bisogno”.
Antonio Celavi