Per il ministro dell’agricoltura francese Bruno Le Maire si tratta di “un accordo storico”, secondo il direttore generale della Fao Jacques Diouf, sulla stessa linea, di un’intesa “molto positiva” frutto, per usare le parole del numero uno della politica agricola statunitense Tom Vilsack, di un “consenso storico per risolvere le sfide urgenti della fame nel mondo e della volatilità dei prezzi delle derrate alimentari”. Prevalgono i toni trionfalistici a due giorni dal summit “bucolico” del G20 dedicato al tema della crisi alimentare mondiale. Una crisi che si manifesta ormai in modo ciclico, se non addirittura cronico, in un Pianeta sempre più tormentato dagli effetti della crescita della domanda dei colossi India e Cina e dalle conseguenze della speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime. Una crisi conclamata cui i ministri delle maggiori economie intendono rispondere con misure sufficientemente vaghe – aumento degli investimenti, maggiore trasparenza, coordinamento delle politiche dei singoli Paesi, creazioni di scorte (ma basteranno?) – da tenere a distanza i provvedimenti troppo drastici a cominciare da quelli che dovrebbero interessare il capitolo finanza, vero e proprio fattore chiave dell’altalena dei prezzi e delle sue conseguenze tragiche nei Paesi più poveri. Ma in fin dei conti, a ben guardare, non dovrebbe essere un problema. Visto che a fornire una ricetta in tal senso, proprio in questi giorni, ci ha pensato niente meno che la Banca Mondiale. Nel modo più incredibile ovviamente.

“Abbiamo vissuto un periodo di straordinaria volatilità dei prezzi delle commodities alimentari che ha generato il pericolo reale di danni irreparabili per tutte quelle nazioni più vulnerabili” ha dichiarato il presidente della World Bank Robert Zoellick definendo il fenomeno “la principale minaccia per i Paesi in via di sviluppo”. Fin qui nulla di strano, visto che l’evidenza è da tempo sotto gli occhi di tutti. Ma Zoellick, che ci crediate o meno, ha voluto andare oltre proponendo una soluzione che sembra a tutti gli effetti una battuta di cattivo gusto. Ma che, disgraziatamente, non lo è affatto, almeno per lui. In un mercato devastato dalla speculazione originata dal dilagare degli strumenti finanziari derivati, ha spiegato, la miglior soluzione possibile per le nazioni povere è data dall’acquisto dei derivati stessi con l’obiettivo di proteggersi in anticipo. Insomma, prima si rende il mercato volatile con i derivati, poi si cedono i derivati per proteggere il mercato dalla volatilità. Se non è geniale poco ci manca.

Secondo Zoellick, ha ricordato il Financial Times, le compagnie dei Paesi in via di sviluppo dovrebbero assicurarsi sul mercato dei derivati in una maxi operazione dal valore teorico di 4 miliardi di dollari. Sponsor dell’operazione la banca d’affari Usa JP Morgan, una delle principali protagoniste del mercato alimentare “di carta” (quello dei contratti futures) nonché capofila di una futura cordata di operatori finanziari pronti a gettarsi nel grande business dell’hedging, ovvero della copertura “assicurativa”, nel comparto alimentare. L’operazione prevede la messa in vendita di contratti futures, ovvero intese di acquisto differite ad un prezzo prestabilito. In passato queste operazioni di copertura sono state comuni nei Paesi più avanzati, assai meno, ha evidenziato ancora il Financial Times, nelle nazioni in via di sviluppo che con questo genere di strumenti hanno maturato un’esperienza quasi nulla. La Banca Mondiale sarebbe pronta a sottoscrivere contratti per 200 milioni. JP Morgan – Zoellick non lo dice ma è implicito – intascherà i proventi delle commissioni.

Per la World Bank è tutto piuttosto logico, almeno a sentire il suo presidente secondo il quale “la gestione del rischio associato ai prezzi in agricoltura” andrebbe incontro ad una soluzione ideale proprio con “l’ingegneria finanziaria”, uno strumento capace di “rendere migliore la vita dei poveri”. Ma gli spunti di riflessione, in realtà, sono anche altri. Nel 2008, la Banca Mondiale produsse un rapporto interno a firma Donald Mitchell che, nelle intenzioni della stessa istituzione, non avrebbe dovuto essere reso pubblico. Un obiettivo conservato per un po’, almeno fino alla rivelazioni del quotidiano britannico Guardian che, nell’autunno di quello stesso anno, riuscì a scovare la relazione in esclusiva.

La crescita senza eguali dei prezzi alimentari che aveva da poco messo in ginocchio 100 milioni di persone tra Africa e Asia, si leggeva nel rapporto era stata causata principalmente dallo sviluppo dei biocarburanti. Coltivazioni sottratte al destino alimentare in nome di quello energetico, certo, ma anche speculazione senza eguali nel mercato dei derivati finanziari legati alle commodities. Gli stessi derivati chiamati in causa oggi come strumenti di salvataggio dai rischi dell’altalena dei prezzi. Possibile che il meccanismo abbia un senso? E’ una domanda più che legittima. Difficile, tuttavia, che coloro che non fornirono a suo tempo alcuna spiegazione sull’occultamento del rapporto Mitchell scelgano di dare oggi una risposta.

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