Un'enciclopedia di Sergio Gilles Lacavalla racconta per 500 pagine le vite estreme dei grandi del rock: Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, David Bowie ma anche gruppi sconosciuti come i metallari norvegesi Gorgoroth
Ma è rock di basso livello, almeno per il grande pubblico. E il connubio tra musica dura (e non) e devianza di qualsiasi genere arriva ai massimi livelli delle chart internazionali di tutti i tempi. Di vite distrutte tra palchi, droghe, psicofarmaci ne possiamo elencare a iosa. Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, David Bowie, e potremmo continuare all’infinito.
Il caso più paradigmatico, che unisce tutta la forza della musica e la debolezza dell’uomo è quello di Syd Vicious, frontman dei Sex Pistols e irregolare simbolo del punk che sconvolse il mondo e la Londra benpensante, sapientemente e cinicamente manovrato da quel genio senza scrupoli del marketing che è stato Malcom McLaren. Sid era un disadattato. Sid era un tossico. Sid era un fottuto e stonatissimo genio della musica. Sid era un assassino. E la vittima non era una persona qualsiasi ma la sua Nancy, la donna che forse amava e che con lui condivideva nottate di stordimento eroinomani e crisi d’astinenza colme di vomito , bava alla bocca e sudori freddi. Accoltellata nel bagno di una camera del Chelsea Hotel (luogo maledetto anzichenò), Nancy Spungen era l’angelo nero di una coppia maledetta e perduta nel vortice dell’eccesso. Un eccesso figlio del disagio, non del vizio di una star capricciosa. Sid era figlio di una tossicodipendente, la stessa madre snaturata che poco tempo dopo il rilascio su cauzione diede a Sid una dose evidentemente tagliata male. L’ultima dose di una vita bruciata troppo in fretta. Ventidue anni, un omicidio, tanta droga, alcune pietre miliari della musica punk. Basta, nient’altro. La leggenda di Sid Vicious è tutta qui.
Ma il connubio tra musica e vita spericolata è antico e esplode soprattutto nell’epoca del flower power, del peace and love, nella summer of love californiana. Esplode a Woodstock nel 1969, ad esempio, e non è un caso se molta gente che ha calcato quel palco sia morta prematuramente. Come miss Janis Joplin, talento adamantino che si sentiva un cesso e cercava nella droga una sicurezza che non troverà mai, una pace che arriverà solo con la morte (ovviamente per overdose) a soli 27 anni. O Jimi Hendrix, chitarrista da Dio, tossico mica da ridere e noto erotomane dalle dimensioni falliche leggendarie, che nei suoi 28 anni di vita non si è negato davvero niente, a parte un po’ di felicità.
Ma gli anni Sessanta erano anche gli anni del “surf” disimpegnato, della musichetta californiana da spiaggia. E chi, meglio degli scanzonati Beach Boys, sono i simboli di quel periodo? Ebbene, nemmeno i fratelli Dennis e Brian Wilson, desengagés massimi in un’epoca di impegno, furono immuni dagli eccessi. Soprattutto Dennis, anche lui drogato ma soprattutto “amico” per un lungo periodo della Manson Family, il gruppo di pazzi invasati guidati dal guru svitato Charles Manson che pochi mesi dopo avrebbe fatto a pezzi Sharon Tate nella villa di Roman Polanski a Bel Air.
Su Beatles e Rolling Stones glissiamo, non fosse altro perché di inchiostro sulle loro imprese fuori dal palco se ne è parlato a sufficienza. Ma del Duca Bianco David Bowie no, non possiamo proprio tacere. Altro che Ziggy Stardust, il vero marziano era proprio lui. Efebico, ambiguo, gay o bisessuale o Dio solo sa chi, una volta arrivato al successo planetario aveva perso completamente la testa. Cocaina e disagio mentale, cocaina e disagio mentale, ad libitum, senza soluzione di continuità. Tant’è che recentemente ha raccontato di aver temuto più di una volta di morire, in quegli anni Settanta fatti di siringhe, sniffate e sesso sporco e sudaticcio. A vederlo oggi, col ciuffone mechato a coprire il viso segnato dall’età e dagli stravizi, fa quasi tenerezza. E invece David Bowie è stato il Signore del vizio per molti anni, fieramente convinto che proprio quel vizio produceva quei concept album meravigliosi dove i giovani disagiati dell’epoca trovavano una pur effimera via d’uscita.
Continuare nell’elenco dei miti della musica vissuti male o finiti peggio sarebbe un esercizio sterile e ripetitivo. Potremmo parlare di Jim Morrison, del malessere disperato di Kurt Cobain, della versione di plastica del cantante maledetto che ha nome Marilyn Manson, di altre morti misteriose, di omicidi, regolamenti di conti tra gang rap del Bronx o del Queens. Persino della morte misteriosissima e della vita poco edificante del re del pop Michael Jackson. Ma ci servirebbe davvero troppo spazio.
Ci ha pensato (riuscendoci peraltro molto bene) Sergio Gilles Lacavalla, che nel suo Rockcriminal (Coniglio editore) ha messo insieme una vera e propria enciclopedia del “rock balordo e maledetto”. Ci sono tutti, proprio tutti, anche gli sconosciutissimi metallari naziskin norvegesi che prima si scopavano tra loro e poi si uccidevano pure. Cinquecento pagine che sono una scarica di adrenalina, un viaggio nel tempo tra musica e droga, gloria e merda, siringhe e orgioni da capogiro. Si legge tutto d’un fiato e il dramma è che alla fine ti senti anche un po’ in colpa. Il perché è presto detto: quei balordi finiti male, vissuti come bestie e esempi non certo edificanti, ci mancano maledettamente. È il rock, bellezza.