Mentre in Italia il dibattito pubblico si trascina in modo sempre più surreale su una riforma fiscale che attendiamo dal 1994 e su un taglio d’imposte per il quale i margini di manovra sono prossimi allo zero, la congiuntura globale da qualche settimana è entrata in una fase di ripiegamento che pone molte incognite.
I dati mostrano infatti un rallentamento nell’espansione dei principali motori della crescita globale: Stati Uniti e Cina. Nel caso cinese, le autorità stanno tentando di raffreddare le pressioni inflazionistiche, alimentate da squilibri fondamentali e dalla forte domanda interna di credito, perché le banche aggirano i vincoli quantitativi ricorrendo alla piazza di Hong Kong e a reti creditizie informali. Gli ultimi dati cinesi, riferiti ai primi cinque mesi dell’anno, mostrano una flessione del 12 per cento nei nuovi prestiti rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ben maggiore di quanto gli analisti si attendessero. Ciò alimenta timori di un “atterraggio duro” dell’economia cinese, rafforzati da recenti notizie di un enorme livello di indebitamento delle amministrazioni locali.
L’altra grande area grigia dell’economia globale è quella statunitense. Il tasso di disoccupazione è risalito in maggio al 9,1 per cento, un dato incompatibile con un’economia che dovrebbe trovarsi ormai quasi a due anni dalla fine “statistica” della recessione. La creazione di occupazione resta molto debole ed in decelerazione, mentre il livello di nuovi sussidi settimanali di disoccupazione mostra che il mercato del lavoro resta in affanno. Un problema in più per Barack Obama, considerato che storicamente nessun presidente in carica ha ottenuto la rielezione con tassi di disoccupazione di poco superiori al 7 per cento, salvo in casi di evidente presenza di un trend di riassorbimento del numero di senza lavoro, che tuttavia oggi appare finora troppo esiguo e politicamente insoddisfacente.
L’ultima stima del Pil americano del primo trimestre (un incremento annualizzato di solo l’1,8 per cento) è anche qualitativamente preoccupante, perché frutto di un aumento delle scorte e di una flessione della spesa dei consumatori. Questa debolezza, che al momento ricalca fedelmente quanto visto lo scorso anno di questi tempi, è frutto proprio di una pausa nella manifattura, che deve liberarsi di un eccesso di scorte. Anche lo tsunami giapponese viene indicato come responsabile del rallentamento, perché ha causato una interruzione nella catena di fornitura globale. La tesi di consenso è quindi che il secondo semestre possa andare meglio. Ma se così non fosse? Gli occhi sono puntati sul prezzo del petrolio, che sta indebolendo la spesa dei consumatori, inducendo i produttori ad assumere meno persone, deprimendo la crescita del reddito e, quindi, la domanda futura. Gli indicatori più recenti di spesa ed assunzioni mostrano che questo rischio è effettivamente cresciuto.
Poi c’è l’Europa, ancora alle prese con la crisi della periferia, lungi dalla risoluzione. In questo contesto, il nostro paese è esposto a tutte le intemperie possibili, all’effetto-contagio di un default greco che getterebbe benzina sul fuoco data la nostra perdurante assenza di crescita (come riconosciuto, dopo S&P, anche da Moody’s con la messa sotto osservazione del nostro debito sovrano), all’indebolimento del traino tedesco sul nostro export, a seguito di una frenata cinese. Comunque vada, lo scenario di crescita prossima allo zero, o comunque inferiore al nostro già limitato potenziale, rende ancor più surreale il tardivo dibattito domestico sul fantomatico taglio delle tasse. Un intervento in deficit è naturalmente impossibile, anche se lo sentiremo suggerire con sempre maggior frequenza secondo accenti “lafferiani”, quel rito voodoo secondo il quale ogni taglio delle imposte si ripaga attraverso un aumento dei livelli di attività economica. Segno crescente della violenza con cui la realtà pare destinata a presentare il conto ad un esecutivo che nulla ha fatto per rilanciare la crescita quando era tempo, e che ora sogna ad occhi aperti un taglio delle tasse che semplicemente non avverrà, perché il paese ha di fronte l’impresa titanica di un taglio di ben oltre 40 miliardi di euro entro il 2014, a cavallo peraltro di una scadenza elettorale.
Date le premesse, ed un quadro congiunturale globale volto all’indebolimento, fantasticare di riduzione del numero di aliquote, come viene fatto da diciassette anni, appare più onirico che irresponsabile, e conferma il distacco dalla realtà che ha colpito l’esecutivo. A meno di eliminare (ancora più onirico) alcune “tax expenditures”, quali le detrazioni per lavoro dipendente e carichi familiari, o la deducibilità degli interessi passivi sui mutui prima casa. Il Libro Bianco tremontiano del 1994 torna a perseguitare il suo creatore, ma il tempo delle illusioni è definitivamente tramontato. Attendiamo di capire in quanto tempo la politica realizzerà che siamo in un’emergenza che rischia di riportarci al 1992.
di Mario Seminerio