London calling to the faraway towns. Questo fu il mio primo incontro con Londra, attraverso i Clash e quell’incredibile esempio d’umanità che fu Joe Strummer.

Trasferendomi a Londra però realizzai che questa non era esattamente la città che avevo immaginato sin dall’adolescenza. Così ho incominciato a cercare i rimasugli di quel luogo che avevo idealizzato, con la speranza che, girando l’angolo tra l’acciaio e il vetro dei freddi palazzi del potere economico della City, un po’ di spirito punk-rock, un po’ di ribellione, un po’ di “Joe Strummer pensiero” potesse ancora oggi riaffiorare. E fu per caso che camminando per Edgware Road vidi la “Joe Strummer subway”, un sottopassaggio dedicato alla memoria di Joe voluto da un’organizzazione sconosciuta (per lo meno al sottoscritto) dal nome Strummerville. Era la prova che aspettavo, qualcosa era sopravvissuto.

“Personalmente non penso che Londra abbia dimenticato Joe Strummer in nessun modo”, racconta Trish Whelan, 41 anni, direttrice di Strummerville. “Per esempio l’idea di società allargata dove i cittadini si aiutano vicendevolmente non è mai stata così viva come lo è ora. Viviamo in una situazione storica molto difficile ed è il momento che ognuno di noi si svegli per cercare un cambiamento, per questo necessitiamo di politiche sociali che vadano in quella direzione. Credo inoltre che anche i musicisti debbano essere messi in condizione di poter effettuare questo cambiamento con l’aiuto della loro arte. Questo in fondo è lo spirito del rock and roll e anche di Strummerville.”

Subito dopo la morte di Joe, avvenuta il 22 dicembre 2002, sua moglie Lucinda, le figlie e alcuni artisti amici come il cantante Billy Bragg e il pittore Damien Hirst crearono Strummerville registrandola come onlus. La loro intenzione era ed è quella di dare una continuazione ai principi sociali che muovevano Joe aiutando giovani musicisti emergenti, fornendo loro sale prove e studi di registrazione gratuiti e creando una comunità musicale globale che loro stessi descrivono come un global campfire, cioè un accampamento attorno al fuoco dove si è tutti uguali, si fa musica, si conoscono e condividono nuove realtà ed esperienze.

Anthony Genn, ex chitarrista dell’ultima band di Joe, i Mescaleros, nell’intervista fatta per il documentario del regista britannico Don Letts su Strummerville dichiara che “non è importante che gli artisti supportati dall’organizzazione siano fan o addirittura sappiano chi sia stato Joe. Anzi quest’ultima condizione rispecchia totalmente la voglia che Joe aveva di aiutare il prossimo, anche se sconosciuto, senza avere nulla in cambio.”

Bevendo un delizioso tè alla menta e guardando i coloratissimi dipinti ispirati alla vita e alle canzoni di Joe appesi alle pareti dell’ufficio (anche se è difficile chiamarlo tale) di Strummerville, Trish mi racconta dei molti progetti che stanno portando avanti. Uno di questi mi ha particolarmente colpito: si tratta di un progetto con sede a Bogotà chiamato Fairtunes, letteralmente “canzoni eque”. Dice Trish: “Abbiamo creato questo studio di registrazione in Colombia in collaborazione con un gruppo d’ingegneri del suono e altre associazioni che lavorano nel campo della musica. Questo progetto dà alla popolazione locale i mezzi per registrare gratuitamente e poi commercializzare i loro brani sulla piattaforma web di Fairtunes. Tutto il ricavato delle canzoni scaricate andrà direttamente all’artista; è un modo per aiutare molte persone a sopravvivere.”

Forse la Londra che immaginavo un tempo non è mai esistita, ma Joe Strummer sì, e organizzazioni come Strummerville sono veri ambasciatori di quello che era il suo messaggio. Proprio questo risulta chiaro quando alla domanda “C’è la possibilità che ‘Joe Strummer’ possa diventare un marchio commerciale?” Trish risponde laconicamente “Dio, no.”

di Francesco Mandolini, giornalista freelance e studente della London School of Journalism

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