Società

Angelo Scola, rinnovo il mio invito al dia-logos

Col cardinale Angelo Scola, neo arcivescovo di Milano, ho discusso in pubblico su “Ateismo della ragione e ragioni della fede” quattro anni fa alla Normale di Pisa. Ne è poi scaturito un libro edito da Marsilio (“Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede”), che alle relazioni e repliche (anche alle domande del pubblico) di quel dibattito aggiungeva due post-scripta degli autori.

Ripubblico qui di seguito il mio post-scriptum, facendo al cardinal Scola i più sinceri auguri, e ribadendo quell’invito al dia-logos, al confronto senza diplomatisti, che purtroppo non ha ricevuto negli ultimi tre anni positiva risposta.

“Se avremo l’occasione di continuare questo dialogo…”. Così il cardinal Scola, nell’elencare l’intreccio di tradizioni filosofiche a cui si ispira la sua riflessione e nell’auspicare nuove occasioni per approfondirle in futuri confronti pubblici. Vorrei perciò, in primo luogo, raccogliere questo invito, assumerlo come un auspicio impegnativo per entrambi. A cui dare al più presto pratica attuazione. Tanto più che esso suona in stridente – ma per me felice – controtendenza rispetto alla scelta compiuta negli anni più recenti dai vertici della Curia e della Cei, di rifiuto di ogni confronto con gli ateismi non compiacenti e la laicità non accomodante. Gli stessi cardinali o vescovi che or non è guari accettavano o promuovevano il confronto, oggi si sottraggono. Non è polemica, questa, è un fatto (di cui posso dare testimonianza diretta).

Polemicamente, invece, azzardo una spiegazione. Perché, da parte dei maggiori esponenti della Chiesa gerarchica, rischiare il confronto, il dia-logos dove contano solo argomenti contro argomenti, quando ormai possono godere di un monopolio mediatico che garantisce loro il privilegio rassicurante del monologo, la tranquillizzante assenza di ogni obiezione e critica?

Nella Chiesa gerarchica il cardinal Scola è restato il solo (o uno dei rarissimi) a manifestare ancora la passione per questo dia-logos – che è controversia di argomenti – quale ingrediente irrinunciabile della passione per la verità. Ecco perché gli propongo di dare attuazione al suo (e mio) auspicio programmando fin dall’uscita di questo volumetto una serie di incontri sui temi che con rammarico di entrambi non abbiamo potuto affrontare a Pisa, e su quelli che, pur toccati, esigono sistematico approfondimento.

Quello del male nel mondo, della sofferenza, e di come di fronte ad essa possa giustificarsi Dio.

Quello dei rapporti tra teologia e filosofia, tra essere ed ente, tra fatto e interpretazione, infine tra Fides et Ratio, e delle tradizioni di pensiero che in tutto ciò entrano in gioco.

Quello della contrapposizione, o compatibilità, o addirittura complementarità di scienza e fede.

Quella di analogo conflitto tra religione istituzionalizzata e democrazia, o viceversa di un apporto del cristianesimo cattolico alla democrazia senza il quale la democrazia stessa finirebbe a repentaglio.

Quello della storicità del cristianesimo, cioè della verità storica su Gesù di Nazareth, sulle prime generazioni di quanti hanno fede nella sua Resurrezione, sul costruirsi dei dogmi.

Quello dell’etica nell’epoca in cui diventa bioetica e investe tutti i momenti dell’esistenza umana, dalla nascita alla morte, e del suo carattere relativo o assoluto, convenzionale o naturale, decidibile o nichilistico.

E tutti gli altri che il cardinale riterrà rilevanti. Mi piacerebbe anzi che queste poche righe di poscritto servissero da memorandum e propedeutica per questi confronti.

Vorrei perciò sottolineare la prima e più tenace difficoltà. Per un effettivo parlarsi, anche nella controversia, è necessario un effettivo comprendersi. Forse soprattutto nella controversia, per focalizzare temi e ragioni del dissenso. Ma oggi questo in filosofia, e non solo tra un credente e un ateo, è reso difficile dall’uso ambiguo e passepartout del termine cruciale verità. E in particolare dalla confusione tra verità e senso.

Esaminiamo due proposizioni.

“La verità è che queste parole sono scritte il giorno venerdì 25 gennaio 2008 (secondo il calendario in uso… ecc.)”

“La verità della vita è la carità”.

E’ di cristallina evidenza come la parola di sei lettere usata in entrambe (e il corrispondente flatus vocis) sia identica, ma faccia riferimento a “cose” diverse quanto il cane dal gatto, l’amicizia dalla trascendenza, e un termine dall’altro in qualsiasi altra coppia di vocaboli dalla grafia e dal suono perfettamente difformi.

In un caso, verità, intendiamo ciò a cui siamo tenuti in tribunale sotto giuramento (“tutta e nient’altro che”), quella che ci intima l’ottavo comandamento, la corrispondenza con uno stato di fatto nella vita ordinaria o nel protocollo osservativo di un esperimento scientifico, infine il carattere ben corroborato di una legge scientifica, malgrado tutti i tentativi di dimostrarla falsa (tecnicamente: falsificarla). In tutti questi casi la verità è accertabile, seppure con modalità diverse, e quindi è intersoggettivamente cogente.

Nel secondo caso, “verità”, allude al senso della vita, non ad una caratteristica della vita accertabile e intersoggettivamente cogente. Per molti milioni di tedeschi (e dei loro alleati fascisti di Salò), in un recentissimo ieri, la “verità” dell’esistenza era il trionfo del Reich millenario sulle macerie di un’Europa sottomessa, e di una Shoa di innocenti. Per tale “verità” erano disposti a morire. Vi fu anzi un filosofo che nelle parole e nelle gesta di Hitler ascoltò l’invio dell’Essere[1]. Se davvero , come dice il cardinal Scola, “ad ogni singolo atto della mia libertà è consentito l’accesso alla verità”, ogni arbitraria scelta di vita potrebbe presentarsi come verità (dell’Essere), e pretendere dunque di essere intersoggettivamente cogente. Gesù Cristo, per il Patriarca di Venezia, Adolf Hitler per il filosofo della Selva Nera. E una delirante volontà di consumo e di diseguaglianza per tanti nostri contemporanei.

In realtà, il senso dell’esistenza non è accertabile, dunque non è né vero né falso, è solo il tentativo (di dare senso) che in ciascuno di noi accompagna l’esistenza stessa come la sua ombra. Tentativo esposto allo scacco, ma anche al successo, si creda o non si creda in un Dio. La frase di Dostoevskij “vivere senza Dio è soltanto una sofferenza”, non è affatto una “penetrane constatazione”, perciò, ma un’arrogante presunzione, sebbene venga da un gigante della letteratura. E fattualmente falsa, oltretutto: conosco innumerevoli atei più felici, o meno infelici, di tanti credenti in un Dio.

Ecco, perché, allora, non sono affatto “umanamente condivisibili e partecipabili anche da chi si dica convintamene non credente” , nemmeno in parte, le risposte cattoliche (della Chiesa gerarchica, almeno), in fatto di “nascita, vita, morte, dolore”.

Anzi, proprio su questi temi si può misurare il rischio di quella “assolutizzazione” della morale della Chiesa (imposizione a tutti, per legge), che il cardinal Scola recisamente nega. Io ritengo immorale non abortire, quando il feto mostri malformazioni gravi che prospettano alla persona futura una vita di sofferenze. Il cardinal Scola ritiene immorale l’aborto in sè, in questa come in qualsiasi altra evenienza. Io ritengo insensato vivere in una condizione terminale di tortura senza speranza, e scelta etica farsi aiutare (ed aiutare) ad abbreviarla. Il cardinal Scola giudica esattamente all’opposto.

Di fronte a questo ineludibile pluralismo morale, due sole sono le regole possibili di convivenza. O l’imposizione di una delle morali a tutti, o la rinuncia di ciascuna morale di imporsi a chi non la condivide. Nel secondo caso sull’aborto deciderà ciascuna donna e sull’eutanasia chi sta vivendo la sua sofferenza terminale. Nel primo caso una delle morali in questione pretenderà di diventare morale di Stato, vincolante per legge. Ma quale, non è detto. Cattolica, stoica, consumistica, islamica, dipenderà esclusivamente dai rapporti di forza. Quando la Chiesa pretende di imporre per legge la sua morale, sta imboccando un vicolo cieco illiberale di cui essa stessa potrebbe domani pagare il prezzo.  Ma su tutto questo, davvero, spero che potremo esercitare dia-logos, anziché volontà di potenza.


[1] “Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e quindi la sua legge”, Martin Heidegger, Freiburger Studentenzeitung, 3 novembre 1933, (la sottolineatura di è, in chiave ontologica, è di Heidegger)