Il mondo è bello perchè è vario. Anzi, è bruttissimo.
E’ vario perché rispetto a certi temi si riscontrano da un paese all’altro differenze abissali. Pensiamo alla monogamia, che alcuni considerano principio naturale, ma che tanto naturale non è, visto che in molti paesi la poligamia è legale e permessa.
Il mondo è pure bruttissimo, però, perche in certi paesi si finisce ancora in galera per aver organizzato un Gay Pride. Il quotidiano Repubblica ha pubblicato oggi nella sua versione online alcune foto di omosessuali russi imprigionati per aver marciato sulla pubblica via in difesa dell’orgoglio omosessuale.
Queste foto mi hanno colpito: non vedo piume di struzzo, tanga, fruste o borse di cuoio – le cose che vorrebbe vedere chi definisce il Gay Pride “una baracconata” – bensì semplici ragazzi, alcuni evidentemente molto giovani, che vestono come molti loro coetanei. Qual è la loro colpa? Quella di aver esercitato un diritto, il diritto alla libera espressione di sé, il diritto di mostrarsi per ciò che si è, il diritto di dire che l’orientamento sessuale è una differenza che non può contare e che tutti i cittadini hanno la stessa dignità sociale e politica indipendentemente dal sesso della persona con cui decidono di legarsi.
Ci sarà chi dirà, ovviamente, che se la sono cercata. Certo, se fossero rimasti chiusi in casa, non sarebbero in cella.
Sono commenti un po’ ipocriti. Se Gesù fosse rimasto chiuso in casa, non avremmo avuto il Cristianesimo. Se Beccaria non avesse deciso di scrivere Dei delitti e delle pene, oggi avremmo ancora la garrota nelle carceri, e la useremmo. Come se le grandi conquiste di libertà non fossero sempre stati il risultato dell’azione, ma soltanto un’ipotesi, una serie di se solo teorici. Non occorre essere degli storici raffinati per capire che non è così: la libertà si coltiva esercitandola, e non semplicemente leggendola sui manuali di diritto costituzionale.
Stupisce oggi la varietà delle soluzioni esistenti da paese a paese.
Sabato 25 giugno scorso, lo Stato di New York ha approvato una legge che consente alle persone dello stesso sesso di sposarsi. Una legge voluta da un governatore conservatore e prodotto di anni di discussioni e lotte. Il percorso è stato faticoso. Una Corte d’appello spaccata nel 2006, proprio poco dopo i festeggiamenti del Gay Pride newyorchese, aveva detto che il principio di uguaglianza non impone affatto il riconoscimento del diritto di sposarsi. La motivazione era molto debole: il matrimonio omosessuale non è procreativo, disse la Corte, e quindi il legislatore ben può vietare alle coppie gay e lesbiche di sposarsi.
Quella pronuncia, sulla quale sono piovute feroci critiche, non aveva impedito ai giudici di riconoscere i matrimoni contratti all’estero, col paradosso che la stessa amministrazione dello Stato aveva ordinato di trascrivere matrimoni conclusi in Canada, Massachusetts e altrove, mentre i newyorchesi non potevano sposarsi nel loro Stato. Ora questa contraddizione è finita.
E da noi? Sembra di essere a metà strada tra S. Pietroburgo e New York, e non solo geograficamente.
Ieri il ministro Frattini ha detto che la Costituzione vieterebbe il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Baggianate. La Costituzione non vieta proprio niente, ma riconosce, all’articolo 29, la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, che è un istituto del diritto civile e può subire cambiamenti a seconda della percezione che ne ha la società e dunque il legislatore. La Costituzione, invece, garantisce a gay e lesbiche il diritto fondamentale di vivere liberamente la loro condizione di coppia. E di celebrare il Gay Pride.
Siamo dunque più vicini a New York o alla Russia? Considerando che qualcuno al Comune di Milano si è lamentato perché Pisapia ha concesso il patrocinio al Gay Pride, invocando la scontentezza dei cattolici che dovrebbero così revocare la loro fiducia al sindaco, forse, la risposta a questa domanda non è proprio così scontata.