Negli Stati Uniti l’accordo bipartisan sul debito non è ancora realtà. Nel frattempo un eventuale declassamento del rating, spiega S&P, potrebbe generare perdite per 100 miliardi. E chi paga il costo reale del fallimento greco? Per le finanze americane è di nuovo tempo di crisi aperta
Adesso il dato è noto anche al pubblico americano e, cifre alla mano, c’è davvero poco di cui rallegrarsi. Certo, si tratta soltanto di un’ipotesi. Ma quei 100 miliardi di perdite potenziali fanno davvero paura, soprattutto in un momento come questo. La notizia l’ha resa nota ieri il Financial Times citando un’analisi della McGraw Hill, società di ricerca legata a Standard & Poor’s: un declassamento del giudizio sul rating sovrano degli Stati Uniti, tuttora valutato al massimo livello di affidabilità, la celebre tripla A, genererebbe perdite sui titoli pubblici pari a 100 miliardi di dollari. La cifra è enorme, per intenderci siamo nell’ordine di grandezza dell’intervento salva Portogallo, ed è, a modo suo, più che attendibile. Nel senso che le agenzie di rating, si sa, possono anche commettere errori. Ma restando un punto di riferimento fisso per il mercato possono dare segnali talmente importanti agli investitori da far adempiere molto spesso la loro stessa profezia.
In estrema sintesi, dunque, si tratta di una pessima notizia. Soprattutto di questi tempi. Il debito a stelle e strisce è sotto osservazione da molti anni ma negli ultimi mesi l’attenzione si è fatta spasmodica. Ad aprile la stessa S&P modificò l’outlook sui conti Usa scalando il proprio giudizio da stabile a negativo. Una sorta di cartellino giallo o, per dirla con i telecronisti contemporanei, “arancione”. Il rischio della bocciatura, leggasi downgrade, è aumentato di colpo. Solo che, per restare dentro l’allegoria calcistica, Obama sembra aver terminato le sostituzioni. L’unica speranza per evitare un’espulsione sempre più nell’aria si colloca ora nel difficile raggiungimento di un’intesa con la controparte repubblicana per un innalzamento del limite sul debito pubblico, tuttora prossimo ai 14.300 miliardi. Più o meno il valore del Pil. Un’impresa non da poco.
“A più di due anni dall’inizio dell’ultima crisi, i politici Usa non hanno ancora trovato un accordo su come invertire il percorso del peggioramento dei conti pubblici o su come porre rimedio alle pressioni di lungo termine sul bilancio” sostenne proprio ad aprile l’analista Nikola Swann commentando il monito di S&P. Un monito originato soprattutto dall’esplosione del deficit, balzato a partire dal 2009 a quota 11% del Pil. E un deficit in ascesa, è noto, significa di fatto soltanto due cose: che sul debito si stanno pagando troppi interessi e che per star dietro a questi ultimi occorre contrarre nuovi prestiti. Esattamente il punto del contendere. Alle casse Usa, sostiene da tempo il Dipartimento del tesoro, servono circa 2.400 miliardi in più da reperire sul mercato obbligazionario. I repubblicani, per i quali la campagna elettorale è già iniziata, chiedono sufficienti garanzie sulla riduzione della spesa. E i democratici, fino ad ora, non sono stati in grado di offrirle. Serve una svolta, insomma, e in tempi piuttosto rapidi.
Sono anni, si diceva, che la sostenibilità del debito Usa è oggetto di dibattito. Ma in quest’ultima ondata di notizie negative c’è, se non proprio una novità, per lo meno un importante spunto di riflessione: quello relativo alla “bilancia” della crisi. Nonostante la tempesta dei debiti sovrani di eurolandia non si sia affatto placata, anzi, le ultime rivelazioni degli analisti S&P sembrano spostare idealmente il baricentro della crisi globale dall’Europa agli Stati Uniti, nell’ultimo capitolo, in ordine cronologico, di un’altalena in costante oscillazione. Se c’è un elemento capace di distinguere questa crisi da tutte le omologhe degli ultimi decenni, esso è dato dal coinvolgimento soltanto marginale dei mercati emergenti, storicamente, al contrario, epicentro numero uno della tempesta (ricordate le crisi debitorie latinoamericane degli anni ’80? O le bufere finanziarie del decennio successivo in Asia, Messico, Russia e infine Argentina?). In sintesi è come se dalla bolla dei mutui californiani fino al default tecnico greco, la patata bollente della crisi avesse fatto la spola tra le sponde dell’Atlantico condizionando gli umori delle economie e delle piazze finanziarie. Oggi l’Europa non si sente molto meglio ma i suoi guai rischiano di condizionare ancor più negativamente la controparte statunitense.
L’ultimo allarme viene dal mercato dei derivati e dal suo segmento più problematico, quello dei credit default swaps (Cds) sui titoli sovrani. Questi strumenti, come noto, funzionano come schemi di assicurazione e consentono di recuperare i crediti vantati nei confronti del debitore fallito riscuotendoli dal soggetto che ha emesso la “polizza”. I Cds sui titoli di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia registrano un controvalore complessivo pari a qualcosa come 616 miliardi di dollari. I grandi creditori, cioè le banche europee, li hanno sottoscritti con i grandi assicuratori, cioè le banche Usa, pagando un prezzo massimo, nel caso della Grecia, pari a circa il 19% del valore dei titoli di Stato (ma in passato i costi erano decisamente più bassi). Ora l’ipotesi che tutti gli elementi deboli dell’Ue vadano presto incontro al fallimento è talmente improbabile da poter essere tranquillamente accantonata. Ma è un dato di fatto che il giorno del probabile default greco gran parte delle perdite sarà sostenuta non dagli istituti europei ma da quelli americani, non foss’altro per il fatto che la stragrande maggioranza del mercato dei derivati è tuttora in mano alle banche Usa. Secondo Markit, uno dei principali monitor mondiali del mercato, i derivati assicurativi costruiti sul debito di Atene potrebbero ammontare a 78 miliardi di dollari.