Dal 1° luglio 2011 parte una diversa tassazione dei fondi comuni d’investimento italiani. L’industria parassitaria del risparmio gestito la sbandiera come molto vantaggiosa per i risparmiatori. Addirittura come l’inizio di una palingenesi per i fondi comuni. Ovviamente i giornalisti economici ripetono come pappagalli tale scempiaggine.
In realtà con la nuova normativa fiscale i clienti dei fondi di diritto italiano pagheranno nel complesso più tasse di prima. Finora erano tassati col sistema introdotto da Vincenzo Visco nel 1998 che garantiva la massima equità fiscale, grazie a un meccanismo unico nel suo genere. A fronte dell’immediata tassazione dei guadagni, il fisco riconosceva immediatamente un credito d’imposta per le perdite (per le questioni più tecniche rinvio a un mio articolo).
Se il mercato e il gestore facevano perdere per esempio l’80% (casi reali), la quota scendeva solo del 70%. Coi fondi comuni italiani non c’era il problema, dopo averci rimesso, di non riuscire a recuperare il relativo credito d’imposta prima della sua scadenza. Ora questo problema c’è. Infatti parecchi di tali crediti andranno di sicuro persi e per questo la tassazione complessiva sui fondi comuni aumenterà. Per giunta, secondo l’interpretazione prevalente, chi esce da un fondo in guadagno e da uno in perdita, paga tutta l’imposta sul primo senza potere utilizzare la minusvalenza del secondo. Potrà servirsene solo per i cosiddetti capital gain da azioni, obbligazioni ecc.
Vantaggi al più irrisori. Da anni la grancassa del risparmio gestito ripete che la vecchia tassazione, detta sul maturato, è sensibilmente più onerosa di quella sul realizzato. Già nel 2006 ho smontato tale tesi. Come mostra la tabella seguente il vantaggio si prospetta minimo anche nell’ipotesi assurda di compensare tutti i crediti d’imposta.
Dati sul passato. I numeri dimostrano che il vecchio sistema di tassazione, tanto vituperato, non ha praticamente prodotto danni. Da metà 1998 a metà 2011, con la nuova tassazione, i clienti dei fondi comuni italiani avrebbero ottenuto mediamente uno 0,760% anziché lo 0,755% annuo netto (indice generale Fideuram dei fondi comuni). Puoi capire! Un risparmio annuo dello 0,005% ovvero 5 euro l’anno ogni 100mila investiti: un’inezia a fronte di costi e minus di gestione micidiali (vedi mia pagina web all’Università di Torino).
Quindi Massimo Fracaro, come tanti altri, poteva dispensarsi dal definirlo “iniquo” (CorrierEconomia, 21 febbraio 2010, prima pagina). Sempre i numeri smentivano l’articolo di Mauro Meazza e Marco Piazza Con il fisco sette anni di svantaggi sul Sole 24 Ore del 12 febbraio 2008, pag. 5. Analogamente, lo stesso Mario Draghi poteva dispensarsi dall’affermare che “i fondi esteri godono di significativi vantaggi fiscali. […] È un handicap serio, su cui occorre intervenire” (pag. 15 dell’Intervento del Governatore della Banca d’Italia alla “Giornata Mondiale del Risparmio del 2007”, Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane, Roma, 31 ottobre 2007). Tali vantaggi erano nulli o irrisori.
Iniquità fiscali. Tutto ciò non toglie che su parecchi aspetti del trattamento fiscale del risparmio e della previdenza ci sarebbe da eccepire. Alcuni li ho segnalati io stesso e sono stati ripresi in un’interrogazione parlamentare del senatore Elio Lannutti (Idv). Ma la tassazione sul maturato non era svantaggiosa per i risparmiatori, tant’è che inizialmente gli stessi gestori l’avevano presentata (a ragione) come uno dei vantaggi del risparmio gestito rispetto al fai da te. Dopo hanno girato le carte in tavola. Enfatizzando su qualche caso estremo che si poteva affrontare diversamente, hanno trasformato tale normativa nel capro espiatorio su cui scaricare le colpe dei loro ripetuti fallimenti.