Comunque il timbro prezioso ce l’ho, non è da tutti finire in un posto che non c’è (ufficialmente). Anche se nel mondo non sono poi così rari, mi viene in mente subito la Cipro Nord turca, stessa bandiera con la mezzaluna di Ankara ma in campo bianco. E lì, a Nicosia, c’è anche l’ultimo Muro d’Europa, ma questa è un’altra storia che c’entra molto con Venezia, oh yeah. Mettiamo in moto, il documento funziona, ci alzano la sbarra fatidica. Siamo dentro. L’autostrada si snoda ancora fra campi piatti e filari di alberi, poi entriamo in una città moderna e spettrale, qualche tram, pochissime auto, una ruota di luna park grandiosamente arrugginita e i resti di una fortezza che ora è base militare sul Nistro. Il fiume arriva d’improvviso, dopo una rotonda affollata di vecchie auto, si allunga pigro e marrone verso il Mar Nero, riflette la luce del sole e mi abbaglia mentre giriamo attorno e finiamo quasi dritti contro un carro armato, dei soldati lo sorvegliano e guardano distratti la strada, un flash e sono già dietro, mi giro, sono russi. Passiamo in mezzo a uno slalom di barriere di cemento, dall’alto di una torretta spuntano altri soldati armati, e poi siamo sul viadotto che oltrepassa il fiume sacro alla santa madre Russia e allo zar che conquistò questo posto nel 1812 e da allora se lo tiene ben stretto anche se è caduto insieme al comunismo. Ora comanda per interposta persona la Repubblica di Putin, come in Abkhazia e in Ossezia. Mah! Getto un altro sguardo a Tighina, lì la maggioranza della popolazione era moldava, ma ora sono quasi tutti scappati dall’altra parte e la pulizia etnica, anzi, la semplificazione etnica, è stata completata. Di qui, in Transnistria, meno di 500.000 russofoni, di là tre milioni di moldavi. Il resto sono emigrati. Bah! Mi concentro di nuovo sulla strada, la città ha già lasciato posto alla solita campagna piatta, poi spunta una costruzione moderna, nuova di zecca, scopro che è lo stadio dello Sheriff, la squadra del signore e padrone di questo staterello che gioca anche la Champions. Assurdità nell’assurdità. Ma il massimo lo raggiungiamo quando entriamo a Tiraspol, la capitale, e dopo il palazzo monumentale del governo e la statua di Lenin con suo crapone pelato che non riluce più neppure a Mosca. Passiamo davanti a un palazzo dove campeggia la scritta Venezia. Venezia! Ma dai, anche qui, in pieno comunismo irreale… dai gira, che voglio fare una foto, dico al mio Virgilio. E lui esegue: inversione a U proprio davanti all’entrata della base russa. Bravo, perfetto, l’ideale per farsi ben volere dalle truppe occupanti che stanno qui da quasi vent’anni. Ormai sono praticamente maggiorenni, già, bella manovra. L’ho voluta io, sì… ma già siamo fuorilegge o al limite e tu ti metti anche a fare il rodeo drive, ma pensa te.
Comunque al primo incrocio rigiriamo, ripassiamo davanti alla base e finalmente arriviamo al centro di questa capitale che non esiste. Parcheggiamo. Il mio Virgilio s’infila in un palazzo squadrato e io mi immergo in questo altro mondo: avete presente il film Ritorno al futuro, quello dello scienziato pazzoide che inventa l’auto per viaggiare nel tempo? Bene, io ero stato catapultato nel passato, negli anni Settanta, nel comunismo sovietico: ragazze con stivaletto di plastica dai colori acidi e gonne smorte su uno sguardo fiero e slavo e truccatissimo. Vetrine con le tendine che un tempo erano bianche e ora assolutamente grigie sormontate da astruse parole in cirillico gialle o rosse dove spuntano in esposizione tre oggetti, tipo uno shampoo, due tinture per capelli, una parrucca. Negozi dove sfila su rastrelliere da caserma un campionario dell’essenzialità, completi di poliestere, maglioni infeltriti, scarpe da ginnastica simil Adidas e da passeggio che se non hai i calli devi essere un fachiro per indossarle. Come Doc finiva a fare il pistolero in Texas io temevo di dover fare il membro del PCI in trasferta nel Paradiso socialista, cercavo di mimetizzarmi ma tutto di me era fuori luogo e, soprattutto, fuori tempo. Proprio come nel film di Zemeckis. Poi scopro che il supermercato è dello Sheriff, che la simil boutique è dello Sheriff, che anche la panetteria all’angolo è dello Sheriff, ma anche la banca, la stazione di servizio, la cattedrale, lo stadio. Non è un fondale di un film, questi vivono in un Grande Fratello. Tutto è del grande capo, del Leader, che ha costruito un mondo su misura per sé e i suoi affari a colpi di leggi ad personam e di monopoli. Tutto quello che è importato nel Paese che non c’è passa da una delle sue società, dal petrolio ai profumi, dalle scarpe alle auto. E quello che le fabbriche producono per l’estero, anche quelle degli italiani che lavorano qui, sotto discretissime coperture, passano da sue controllate. Sto camminando in un Matrix che è reale e nello stesso tempo irreale, una Rete i cui gangli finiscono sempre e comunque lassù, da Igor Smirnov. La sensazione di essere spiato e controllato diventa forte, dilagante, ti guardi in giro, mi aspetto da un momento all’altro di essere rapito, di scomparire nel nulla perché nessuno qui mi conosce e io sono in un posto che non esiste, precipitato in una finzione in un altro tempo e spazio. Forse devo smetterla di viaggiare, meglio starsene a casa, tranquillo, caminetto, cane e pipa. Questa è l’ultima volta che mi infilo in casini di questo tipo, giuro! Per fortuna la mia guida mi ripesca mentre mi sono messo schiena al muro in un posto riparato, schivo, grigio, insomma, una nullità. Dai vieni, andiamo – mi fa – ti porto al fiume e dopo andiamo alla Kvint, alla distilleria dove fanno il famoso cognac. Di chi è la distilleria? Fate un nome, uno a caso? No, no, basta è un’ossessione, l’unica fortuna è che il Grande Capo non compare mai, in tv o nei cartelloni, altrimenti mi sembrerebbe proprio di essere in un altro posto e in un altro tempo. O solo nel mio?