Nostalgia canaglia
I fiori stanno distesi davanti al gigante di granito rosso che guarda il sol dell’avvenire con cipiglio fiero. Un gruppo di vecchietti, le facce abbronzate e solcate da rughe con medaglie dell’Armata Rossa e spille CCCP orgogliosamente al bavero, parlotta tranquillo all’ombra della statua di Lenin che troneggia nella grande piazza del Soviet Supremo della Pridnestrovskaia Moldavskaia Respublica (Pridnestrovie in breve, in cirillico scriverlo è un’impresa), l’ultima repubblica socialista sovietica sopravvissuta al naufragio dell’URSS. In alto, sulla sommità del palazzo in stile classicocomunista svetta ancora la falce e il martello incorniciati da spighe e uva e sormontati da una stella rossa. Tutto come allora, vent’anni fa, quando cadde l’Unione e scoppiò la guerra civile tra moldavi e russi, tra cirillico e latino, tra voglia d’Europa e nostalgia del sistema che resse questo sterminato Paese per settant’anni fino all’arrivo di Gorby. Duemila e passa morti e una dittatura dell’ex capo del KGB Igor Smirnov dopo quei ragazzi classe 1945 stanno a festeggiare il faro della Rivoluzione d’ottobre, l’ideologo e la scintilla di quel movimento che voleva cambiare il mondo e ha lasciato solo ricordi e miserie. Sorridono quando io e il mio compare filmico Enrico chiediamo notizie, storie, informazioni provando tutte le lingue che conosciamo, compreso il dialetto veneto, senza avere l’unica che ci permetterebbe di dialogare con loro: il russo. Sono un po’ timorosi, chi siamo, da dove veniamo – «Italianiskj, eh!» – ma non ci credono, non capiscono come possano arrivare fin lì – a Tiraspol, nella capitale dello stato che non è riconosciuto da nessuno tranne che da pezzi di Abkhazia e Ossezia – dei turisti. Turisti di che? Del tempo che fu? Però si avvicinano, cercano di parlarci, i sorrisi bambini mentre vogliono spiegarci che festeggiano – scopriremo giorni dopo che il 22 aprile è l’anniversario della nascita di Vladimir Il’ic Ul’janov, il compagno col pizzetto e lo sguardo fisso – come vivono, cosa sognano ancora quegli occhi un po’ umidi che guardano a un passato che non esiste più eppure vive ancora in loro e in quel monumento alto otto-dieci metri. La testa pelata del grande rivoluzionario rifulge al sole di questa Pasqua imminente, i baffoni e il mento aguzzo fendono l’aria, l’orizzonte, il braccio sta teso e chiuso in un pugno serrato mentre sembra che si protenda, come se il gigante stesse per parlare, per lanciare un comizio dei suoi, per infervorarsi nella grande illusione comunista. Quello che spicca in questa statua, una delle ultime rimaste di Lenin sulla faccia della terra, è la coda che sfugge alla sua sinistra: il suo cappotto stilizzato si confonde in un’ala di granito, pronto a portare in volo lui e le sue parole come in un quadro di Chagall. Non gli bastano i tulipani rossi come omaggio, il vecchio condottiero vorrebbe di più, forse risorgere per lanciare una nuova sfida al capitalismo. Ma quello è un miracolo riservato solo agli dèi, a Gesù. Lui era solo un uomo che morì presto, nel 1924, e non vide i disastri che aveva contribuito a partorire come questo stato ai confini dell’Europa, una lingua di terra delimitata dal fiume Nistro grande poco più della Valle d’Aosta e meno della Liguria dove vivono in mezzo milione senza un passaporto valido per il resto del mondo (devono usarne altri, ucraini, russi, moldavi) e con una moneta, il rublo, seppellita dalla storia ma non dai maneggi del Grande Fratello che tutto comanda qui.