Tremila chilometri per varcare il Danubio e “conquistare” il Far East. Il racconto di viaggio di Maurizio Crema in Romania, Moldavia e Transnistria partendo da Venezia e passando dai Balcani. Un progetto che diventerà anche un documentario. Ecco un'anticipazione del capitolo sulla Transnistria e un video
Una cavalcata matta e un po’ disperata lunga 1500 chilometri con tanti fantasmi: la badante, la prostituta, l’operaio della Zastava, l’imprenditore del Nordest, il trafficante di case e donne, i contadini arricchiti col boom immobiliare (che finisce con un matrimonio zingaro e una notte magica che poteva trasformarsi in un incubo quando tre ragazzine hanno iniziato a danzarmi intorno). E scatta la paura, del diverso, dello straniero, del buio di Craiova, città oscura, poca luce e pochi lampioni. Che fare? Scappare, per le avventure c’è sempre tempo. Ma non e stata una sconfitta. Primo, perché sono tornato vivo e poi perche sono iniziati altri viaggi. Quelli raccontati nella seconda parte del libro, un po reportage e un po cartoline di un Est che e anche lo specchio del Nordest e dell’Italia di questi ultimi vent’anni: berlusconiana e arraffona.
Si narra dei monasteri affrescati della Bucovina, in Romania, dei castelli di Dracula (quello vero e quelli falsi tipo balcone di Giulietta) e dela cantina sotterraneee di Chisinau o del Barone degli zingari Moldavi che vive a Soroca, oppure di Bucarest, capitale rilucidata di un paese che non si sa ancora come abbia fatto a entrare in Europa.
Il Paese che non c’è
[Transnistria]
La Bessarabia (Besarabya in turco) è una regione compresa tra i fiumi Prut (affluente di sinistra del Danubio nel suo corso inferiore) e il Nistro: attualmente è suddivisa tra la Moldova (parte settentrionale, dopo la disfatta dei Mongoli del 1343 fu annessa al principato di Moldova) e l’Ucraina (parte meridionale o “Bessarabia storica”, o Budjak “Bessarabia Vecchia”, Bugeac in rumeno, Bugiac in lingua tartara e Bugiak in turco).
Già questo incrocio di lingue fa capire come da queste parti sia passato di tutto e non sia ancora finito. È rimasto sospeso, aleggia come un fantasma tra la pianura di campi coltivati e filari di alberi che si allungano a distesa fino al confine che non c’è. Pensi di trovarti davanti a un qualche punto geografico, un monte, un fiume, un cocuzzolo, e invece l’autostrada rattoppata finisce in un posto di blocco sorvegliato da soldati dove il primo comandamento dei cartelli è non fotografare né filmare. D’altra parte, come si può registrare un posto che non esiste? Sono passati una cinquantina di chilometri da Chişinău, ne mancheranno duecento a Kiev, ma ora mi ritrovo a fare i conti con un paradosso. «Non credo che vi sia bisogno di visto per entrare in Transnistria, ma tu portati dietro il passaporto e in ogni caso spera, non è detto che ti permetteranno di passare. Non esiste un criterio, c’è gente che conosco che entra e rientra, altri italiani che sono rimasti bloccati per ore senza speranza. Tu prova».
L’amico imprenditore italiano non è del Sud ma lavorando da queste parti da anni era diventato un fatalista convinto. E anche i suoi colleghi o la gente che ho conosciuto, rumeni e moldavi, ha lo stesso approccio. Il confine del Nistro è ancora un rebus e non solo perché formalmente quel Paese non è riconosciuto da nessuno, nemmeno dai russi che l’hanno creato quando nel 1992 l’armata del generale Lebed si schierò con i secessionisti dell’autoproclamata Repubblica di Transnistria, e passò il fiume che scimmiotta l’Istro occupando Thighina (o Bender per i russi), la città che si profila in fondo all’autostrada, dopo i fili spinati di questa frontiera che ufficialmente non esiste. Vi furono scontri, una vera battaglia, morti e feriti. Da allora la situazione è congelata, e prosperano i traffici.
Sono nervoso e lo è anche la mia guida. Lui è moldavo ma mostra alle guardie transnistrie (evocativo, eh?) un passaporto rumeno, cioè europeo. Bene, proprio un bel pasticcio. Prima di arrivare mi ha detto di nascondere macchina fotografica e telecamera, io mi sono infilato nelle mutande la memoria di tutte le mie preziose foto e ho distribuito le cassette sotto il tappetino e gli apparecchi tra le varie tasche di quel canguro d’auto che mi ritrovo. Passiamo una prima frontiera, mi si spiega che è quella moldava, ah! Poi la terra di nessuno di un chilometro tra sterpaglie e fili spinati, un’autoblindo russa, sacchetti di sabbia e pennoni a sventolare bandiere col montone. E arriva un altro stop. Spunta il cirillico. Questa è la Transnistria, Pridnestrovie in russo, mi spiega il mio Virgilio guardia del corpo autista e chissà che altro. Il poliziotto che ci scruta ha il colbacchetto nero e la divisa caki, mostrine lucenti e un bel pistolone alla cintura. Un altro passa in rassegna l’auto, batte con uno sfollagente sulla carrozzeria, si fa aprire il cofano dietro, controlla dentro e poi fa richiudere. Aprono le portiere dietro, io sudo freddo, non mi va proprio di finire in galera in un posto come questo dove l’unico soggetto riconosciuto dal mondo è la squadra di Tiraspol (città del Tyras, l’antico nome latino per Nistro), lo Sheriff, punta di un iceberg che nella parte sommersa controlla un gruppo che conta supermercati, distributori, fabbriche, televisioni, giornali, distillerie, agenzie pubblicitarie, società di costruzioni (o mamma mia, mi sembra di essere in Italia!). In pratica metà della ricchezza di questo Paese è nelle tasche di un paio di agenti segreti e del figlio del capo Oleg Smirnov. Le guardie di frontiera ci fanno cenno di accostare, parcheggiamo davanti a un prefabbricato basso e lungo dove si assiepano in altri cinquanta, donne, bambini, uomini. Tutto è scritto in cirillico, siamo già in Russia. Guardo in giro, controllo con la coda dell’occhio cosa accade all’auto, nessuno se la fila. E io mi metto in fila. C’è da compilare un foglietto con tutto quello che sono, nascita, residenza, lavoro (turista, meglio non fare i giornalisti da certe parti, o in tutte?!). Una donna dai capelli scarmigliati e rossi, gli occhi verdi e la pelle con le lentiggini, sgomita e si piazza davanti al gabbiotto mitragliando in russo la poliziotta dall’altra parte del vetro. Ride alle battute degli uomini intorno, alza un figlio di tre anni e tiene sotto controllo l’altro, capisco che vuole andare a Kiev e arriva da chissà dove. Io cerco di scambiare qualche parola con gli altri della coda, l’inglese non è diffuso ma intuisco che molti stiano andando in Ucraina per poi finire in Russia dove c’è ancora lavoro ed è più facile trovare un posto rispetto alla dura Europa che fa un sacco di storie, che quella è una porta dove transitano spesso in un’emigrazione insistita che si porta dietro chissà cos’altro. Poi è il mio turno e sorrido, il mio solito sorriso beota da ufficioso a ufficiale. La poliziotta, capelli neri e occhi azzurri, mi guarda distratta e timbra. Il mio fascino non ha fatto molto presa, ma almeno se l’è bevuta che ero solo un turista. D’altra parte il problema non è entrare, mi fa subito dopo il mio compagno di viaggio, ma uscire. Ah, grazie!