C’era chi immaginava di vederlo abbattuto e provato dagli eventi degli ultimi giorni. Ma 5 giorni di carcere non sono bastati per buttare giù e piegare l’ego dell’ormai ex comandante dei vigili, Giovanni Maria Jacobazzi. Che con un guizzo di orgoglio è riuscito a entrare nel tribunale di Parma senza farsi cogliere dai flash dei fotografi, arrivando alle 7.30 e quindi un’ora e mezza a prima rispetto a quanto annunciato. Ed ha risposto anche con tono altezzoso e seccato ad alcune domande troppo precise formulate dagli avvocati difensori degli 11 vigili condannati per il caso Bonsu: “Avevo preparato dei documenti per parlare precisamente, ma sapete tutti dove sono adesso. Non sono potuto passare nel mio ufficio a prendere le mie carte”, ha esordito. Non l’ha certo mandata a dire, Jacobazzi, a chi cercava di metterlo in difficoltà con domande non inerenti all’affaire Bonsu o con frasi sibilline circa il suo coinvolgimento in altre vicende giudiziarie: “Devo farvi una lezione di diritto amministrativo? Sono entrato in carica il 1 ottobre 2008 su determina comunale regolare, gli atti sono tutti in Comune a vostra disposizione”.
Così, a schiena dritta e con determinazione Jacobazzi ha risposto a tutte le domande del procuratore e degli avvocati, colpo su colpo, botta su botta. Scortato da tre agenti della polizia penitenziaria, senza manette, in versione sportiva ma senza rinunciare al tocco di eleganza della camicia, l’ex comandante della polizia municipale si è seduto davanti al microfono e ha raccontato come ha trovato il comando di Parma una volta entrato in carica. Denunciando una situazione di omertà: “Gli agenti coinvolti non collaborarono in alcun modo, ho fatto davvero fatica a capire qualcosa di quanto fosse successo il 29 settembre – racconta -. Non c’erano ordini di servizio su quel giorno, non capivo chi avesse partecipato. Ho provato a chiedere al comandante Emma Monguidi, ma era in ferie. Così ho chiesto al vicecomandante Sabrina Fabbri, che poco dopo è rimasta assente dal servizio per almeno una settimana. Mi sono fatto fornire una serie di relazioni dagli agenti, sulla base delle quali ho formulata quella che il sindaco ha discusso in consiglio il 16 ottobre. E che poi ho integrato con la denuncia dell’esistenza di una fotografia che ritraeva un vigile con Emmanuel”.
Un brutto episodio, che secondo Jacobazzi rivela il clima di omertà presente in comando: “I vigili non mi avevano detto nulla, fino a quando il procuratore non diede l’annuncio alla stampa. Allora chiesi spiegazioni e Fratantuono mi disse che compariva lui, ma non chi l’aveva scattata. Ma sicuramente ne erano a conoscenza più persone, erano negli uffici pubblici”.
Una situazione imbarazzante per Jacobazzi, che ammette di aver sempre spinto i suoi uomini verso la collaborazione con la giustizia e l’amministrazione: “Eravamo finiti sul New York Times, accusati di comportamenti razzisti. La ritengo una cosa gravissima e non collaborare peggiorava le cose”. Nel frattempo, Jacobazzi racconta di aver cercato di sistemare le cose al comando: “Chiusi la cella di sicurezza in cui era stato rinchiuso Bonsu (ora un magazzino, ndr) perché non era a norma, sciolsi il nucleo sicurezza e ordinai delle sanzioni disciplinari, oltre al trasferimento dei coinvolti in altri settori”.
Per quanto riguarda l’episodio della doppia relazione, emerso durante il dibattimento con i vigili accusati per il pestaggio del giovane ghanese, Jacobazzi smentisce di aver divulgato qualsiasi relazione dei propri uomini o di averne ordinate di successive per mascherare l’utilizzo dei documenti interni da parte della stampa.
“Ricordo che ordinai ai miei uomini di rifare una relazione, ma perché era scritta davvero male, con errori grammaticali. Chiesi quindi di cambiare forma dal punto di vista sintattico, non certo dei contenuti che sono rimasti gli stessi”.Jacobazzi ha anche ammesso di aver incontrato un giornalista di Panorama, chiamato dal sindaco Pietro Vignali, con il compito di scrivere un articolo per fermare la campagna mediatica negativa nei confronti della polizia municipale. Ma nega comunque di avergli consegnato documenti: “Ci tengo a precisare comunque che non si trattava di atti istruttori coperti dal segreto d’ufficio, non era un reato diffonderli a qualcuno, per quanto non fossi d’accordo. Per quello poi non ho aperto indagini interne per capire chi fosse stata la talpa”.
Un colloquio durato ore, quello di ieri mattina. Un colloquio necessario a chiarire responsabilità e coinvolgimento degli agenti e dei loro vertici, a cui l’ex comandante ha dimostrato di voler fornire il proprio contributo con orgoglio e determinazione. Ma una volta conclusa la sua testimonianza, Jacobazzi, è stato scortato dalla polizia penitenziaria fino alla camionetta che l’ha riportato, in manette, nel carcere di via Burla. Proprio lui che, come hanno dimostrato le intercettazioni, odiava fare brutte figure davanti alla città di Parma.