Hanno gli stessi obblighi di un lavoratore subordinato ma in realtà la loro borsa prevede 750 euro al mese. "Devono ancora imparare", si giustifica il direttore Silvio Garattini. "E intanto nessuno ci versa un euro di contributi", denunciano i ricercatori
“Noi non conosciamo il fenomeno del precariato. In 50 anni non abbiamo mai avuto questo problema”. E’ fiero Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche ‘Mario Negri’. Il “direttorissimo” come lo chiamano i ricercatori del centro, che precari invece si sentono eccome. “Lì dentro di assunte ci sono solo le segretarie”, scherzano alcuni. E i capi, dirigenti e luminari di uno degli istituti italiani – un ente morale no profit – più prestigiosi e noti anche all’estero. I suoi lavoratori sono per lo più borsisti – circa 168 solo nella sede di Milano – che percepiscono 750 euro al mese. Alcuni da più di cinque anni, al di là di ogni ragionevole periodo formativo, ricordano. Laureati o dottorandi, alcuni con esperienze lavorative già maturate. Giovani che “quando arrivano non sanno fare nulla e hanno bisogno di aiuto e consiglio”, invece, per il professor Garattini. Borsisti che devono chiedere permessi, hanno orari rigidi e ferie programmate, ma non un contratto. “E intanto nessuno mi versa i contributi”, fa notare uno di loro.
“Lavorano otto ore come tutti, usano i laboratori e hanno a disposizione le attrezzature come gli altri”, spiega disinvolto il ‘direttorissimo’. “Ma non sono mica come i ricercatori dell’università che fanno anche lezioni ed esami”, aggiunge un po’ scandalizzato. Eppure “l’attività di laboratorio è un’attività pienamente lavorativa”, spiega Massimo Laratro, avvocato del Lavoro del collettivo ‘San Precario’, a cui si sono rivolti alcuni dei ricercatori del ‘Mario Negri’. Quello che si svolge al centro, continua, è un “chiaro rapporto di lavoro subordinato, dove si può pretendere e obbligare”. Al contrario di una borsa, dove si dovrebbe anche studiare, guardare e imparare.
E all’istituto di obblighi e pretese ce n’è parecchi. Tutti i borsisti sono dotati di un badge, con cui viene controllato che svolgano le loro otto ore giornaliere. Impossibile mangiare in fretta e uscire mezz’ora prima: la pausa pranzo è di un’ora, tassativa. Testimone la ‘strisciata’. “Il badge serve per ragioni di sicurezza, – si giustifica Garattini – per sapere chi è nella struttura e chi no”. “Nessuno ha un obbligo”, dice il direttore. Come quella collega di cui tutti raccontano. Una ricercatrice che, con regolare certificato medico, doveva uscire dieci minuti prima dell’orario di chiusura una volta alla settimana, per alcune visite mediche. Al momento del rinnovo per lei la borsa è stata tagliata: tre mesi anziché un anno. Perché all’istituto funziona così: continui permessi da far firmare ai capi per entrate, uscite o malattie; nessuna flessibilità sugli orari, nemmeno per i pendolari; l’obbligo di prendere le ferie ad agosto, quando l’istituto chiude e c’è meno lavoro. Regole, per altro, tramandate oralmente o poco più. “Non esiste nulla di scritto – racconta un borsista -, le comunicazioni ci vengono date solo via email”.
“Siamo divisi in laboratori e unità, con un diretto superiore e faccio quello che mi dice il mio capo”, racconta un altro ricercatore. Non proprio quello che gli era stato prospettato quando si è iscritto a uno dei diversi corsi che danno accesso alla borsa del ‘Mario Negri’. Come quello organizzato con la regione Lombardia, della durata di otto mesi – da ottobre a giugno – per tre anni. “Che poi al centro viene spalmata su 12 mesi”, continua il borsista. Dopo la scuola, che per Garattini serve ad “apprendere”, la situazione però non cambia. “Fossero solo tre anni potrei capirli – commenta un ricercatore -, ma io ormai lavoro qui da più di cinque anni”. E senza prospettive certe. “Qui è pieno di pensionabili e cariatidi che non si sa se vengano pagati o meno”, raccontano dal centro. “Una volta – continua un borsista – ho sentito uno dei capi che diceva: ‘Poverini, prendono troppo poco di pensione’ per giustificare la loro presenza”. E “io così sono costretto a stare ancora a casa con i miei – conclude – nonostante abbia trent’anni”. Anche perché per i borsisti sono previsti dei dormitori, ma per accedervi bisogna scalare 300 euro al mese alla loro busta paga da 750.
Il problema dal punto di vista legale, spiega Laratro, non è tanto la forma del foglio di carta firmato dai lavoratori – che li indica come borsisti -, ma la sostanza di come svolgono la loro giornata all’istituto. Tra capi, permessi e accesso ai laboratori, “la loro prestazione è continua – prosegue il legale -. Sono destinati a progetti che devono essere eseguiti in tempo e su cui devono relazionare”. Esattamente quello che fa un lavoratore assunto, con uno stipendio e dei contributi. E allora perché farlo? “Quello del ricercatore rientra tra i lavori ad alta vocazione – spiega Laratro -. Si accettano condizioni ignobili perché si crede in quello che si fa”. Nonostante venga “svalorizzato”. Tanto nel settore pubblico, quanto nel privato. “E’ vero, i cosiddetti baroni stanno all’università – conclude Laratro -, ma fuori è uguale”.