Alcuni economisti ambientali si sono votati a una missione: produrre una stima del valore del capitale ambientale mondiale e dei danni che subisce per effetto delle varie attività umane. A lume di logica verrebbe da dire che è un progetto talmente vasto da rasentare il demenziale. Una stima del valore di tutti i beni ambientali, acqua, aria, foreste, specie animali, biodiversità e via discorrendo dipende da talmente tante incertezze e assunzioni arbitrarie da apparire senza speranza oppure un esercizio vacuo.
In parte è vero. Ma d’altro canto anche stime molto imprecise e impregnate di elementi soggettivi hanno il pregio di far planare il dibattito dall’empireo rarefatto dei princípi verso il terreno accidentato degli interessi in conflitto. Perché è su questo terreno che quasi sempre si formulano le decisioni politiche di ampio respiro. Prima che vi scateniate nei commenti, lasciatemi fare una precisazione: so benissimo che per molti quantificare fa rima con mercificare, ma a mio avviso in questo caso (e in molti altri) quantificare fa rima con influenzare.
Che piaccia o meno, che sia chiaro o meno all’opinione pubblica, le decisioni politiche vertono innanzitutto su come allocare risorse scarse. Quando si guarda attraverso la cortina fumogena delle buone intenzioni, dei dotti dibattiti, dei nobili ideali e dei principi incrollabili spunta sempre il nodo economico.
Per cui è cruciale far capire all’opinione pubblica il valore delle risorse ambientali in modo che chi prende decisioni ne sia chiamato a rendere conto con delle cifre. Senza un parametro di riferimento nel dibattito sull’uso delle risorse ambientali, avranno sempre partita vinta quelli che mettono sul tavolo cifre nude e crude come i posti di lavoro persi, le produzioni danneggiate, l’energia più cara, le esportazioni, i salari e tutta la grancassa retorica del “non possiamo permettercelo adesso”. Guardate cosa è successo alle promesse di Obama in materia ambientale. Carta straccia nel giro di pochi mesi sotto l’onda d’urto dei media che agitavano ad arte lo spettro della crisi e del declino.
Bene hanno fatto le Nazioni Unite a diffondere un rapporto presentato al Decimo incontro della Conferenza dei Partiti (l’organo di governo della Convenzione sulla Diversità Biologica) tenutasi in ottobre a Nagoya, in Giappone, dove il danno ambientale viene stimato tra i 2 e i 4,5 trilioni di dollari all’anno. L’ampiezza dell’intervallo di stima testimonia la difficoltà dell’esercizio. Tuttavia è solo il passo iniziale, frutto di una metodologia embrionale che andrà affinata nei decenni, con dati più precisi quando diventeranno disponibili e, si spera, maggiori risorse da destinare allo scopo. E’ importante che l’economista alla guida del team sia un indiano, Pavan Sukhev, in modo che questi esercizi non vengano facilmente rubricati (come spesso succede nei fora internazionali) ad elemento di pressione dei paesi ricchi sui paesi emergenti.
Una stima dei costi ambientali aiuta a fissare la lista delle priorità e fornisce munizioni intellettuali di grande impatto anche a livello locale quando si valutano le conseguenze delle attività umane. Ad esempio, se si stimasse il danno del traffico a Roma, sarebbe molto più facile argomentare che il costo di una linea di metropolitana rappresenta in realtà un risparmio di capitale ambientale. Se si facesse una stima delle conseguenze sul capitale ambientale prodotto dalla Tav si sarebbe potuto discutere con cognizione di causa e fare paragoni con i (supposti) benefici economici (al di là di quelli ovvi per le tasche dei costruttori).
E sarebbe anche utile per stabilire, laddove è necessario, l’ammontare della tassa per l’uso delle risorse ambientali, dai motori delle autovetture, ai prezzi dell’acqua, alla pesca commerciale. A titolo di esempio, il rapporto delle Nazioni Unite valuta in circa 50 miliardi di dollari il costo-opportunità dello sfruttamento intensivo, senza controllo, delle risorse ittiche.
Il cambiamento delle politiche collettive e dei comportamenti individuali necessari per ridurre il danno che viene inflitto all’ambiente dovrà essere molto profondo e si scontrerà sempre con resistenze tenaci. E’ sempre una battaglia impari perché, come in tutti casi in cui ci sono interessi collettivi in ballo, i benefici (per di più di lungo periodo) sono troppo diffusi a fronte di danni (per lo più immediati) che alcuni interessi subiscono.
La strategia delle Nazioni Unite cerca di ribaltare questo schema e introdurre un elemento di razionalità nel dibattito. Sarebbe utile che questa strada venisse adottata anche dai singoli paesi e dalle autorità locali. Chissà, magari uno come Vendola potrebbe fare da apripista nella penisola.