Parental recruiting o job property. Così gli inglesi definiscono (e spesso benedicono) questa scellerata pratica che si annida nel mondo del lavoro. Difficile da tollerare che ci sia un passaggio autorizzato di testimone (meglio dire di parentela) che coinvolge anche aziende pubbliche. Per legame filiale il lavoro a tempo indeterminato passa ancora oggi in Italia dal padre al figlio.

Eccezion fatta per alcuni casi straordinari come lutti in famiglia, prendersi il lavoro del papà senza concorso o senza selezione annienta ogni regola di meritocrazia e etica sul lavoro. Questo fenomeno è stato raccontato dall’Espresso di qualche settimana fa in un pezzo a firma di Elena Bonanni e Camilla Conti. Le giornaliste riportano fatti sconvolgenti: in Italia dalle Poste alle Ferrovie o alle banche private come Intesa San Paolo e Popolare di Milano i figli spesso scavalcano le trafile e passano avanti. Anche uno come Sergio Marchionne – da sempre a parole primo ambasciatore della meritocrazia nel luogo di lavoro – ha permesso che nella sua Fiat fino al 2006 ci fossero 636 borse di studio per figli di dipendenti “finalizzate all’assunsuzione”.

Il sindacato s’è reso spesso complice di questi accordi, nonostante il leader Cgil Susanna Camusso abbia preso le distanze da questa pratica di staffetta padre-figli: “Queste formule sanciscono la rottura di un principio di eguaglianza”.

La pratica del posto di proprietà però affonda forse proprio nel nostro DNA, come fotografa bene la ricerca annuale Almalaurea: il 43% dei padri ingegneri ha un figlio (maschio) laureato in ingegneria. Lo stesso avviene tra i laurerati in economia e medicina: rispettivamente il 32% e il 31% hanno il padre già laureato in economia o in medicina.

Così afferma Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria: “Conoscendo la serietà di un padre si è meglio disposti ad assumere il figlio”. Ecco, l’Italia imbalsamata dalle logiche di casta e dai baronati si rafforza anche da queste considerazioni.

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