Hugo Chávez ha sconfitto la morte. L’ha sconfitta (o è sulla via di sconfiggerla, volendo dar credito ai più recenti e ancora abbastanza reticenti bollettini medici) da un punto di vista clinico. Ma soprattutto l’ha sconfitta – speriamo in modo permanente – da un punto di vista verbale, filosofico, psichico o, più semplicemente, umano. Come? Liberando finalmente il termine “socialismo” – quello, assai dubbio, del XXI secolo da lui proclamato, e quello che da sempre vive nei cuori di quanti credono nell’eguaglianza tra gli uomini – dal peso, storicamente spiegabile, ma non per questo meno mefitico, della parola “morte”.
Narrano infatti le cronache come, giovedì notte, il presidente bolivariano – dal 10 giugno ricoverato a Cuba a causa d’un “ascesso pelvico” d’imprecisata natura – abbia finalmente fatto di persona quello che gli uomini della sua corte (presumibilmente non per volontà propria) non erano stati in grado di fare in quasi tre settimane di dichiarazioni balbettanti e contradditorie. Ovvero: spiegare in modo accettabile al popolo venezuelano le vere ragioni d’una tanto prolungata assenza.
E soprattutto narrano, quelle cronache, come, nel concludere il suo messaggio televisivo – nel corso del quale ha rivelato, infine, la natura cancerosa del tumore asportato dai medici cubani – Chávez abbia fatto uso d’uno slogan che, volendo riesumare il titolo d’un vecchio ed ormai illeggibile saggio di Regis Debray, a suo modo rappresenta una “rivoluzione nella rivoluzione”. Non più il tradizionale “Patria, socialismo o muerte, venceremos” – mutuato dal classico “Patria o muerte, venceremos” del castrismo – ma uno splendido, luccicante “Viviremos y venceremos”, vivremo e vinceremo…
Chávez, evidentemente, continua a pensare a se stesso come ad un classico “uomo della Provvidenza”. E questa resta un’eccellente ragione per dubitare della durata della svolta e per continuare a guardare a lui con tutto il sospetto che gli uomini della Provvidenza devono ispirare in chiunque ami la libertà. Ma – effimero o meno – il passo in avanti è stato comunque grande e tale da meritare non solo un applauso, ma anche un augurio supplementare, rispetto a quelli dovuti a ogni essere umano in lotta con una grave malattia. Un augurio tutto politico. Che Hugo Chávez possa davvero – per grazia del Dio che lui stesso ha ripetutamente invocato – vivere e vincere. Vivere perché la vita è bella. E, da vivo, vincere combattendo tutti i cancri – culto della personalità compreso – che della vita (e del socialismo) sono, politicamente parlando, mortali nemici.