Ci è già stato spiegato in tutte le salse che l’accordo Confindustria-Sindacati, salutato con entusiasmo da Tito Boeri su la Repubblica e dai tanti aspiranti sterilizzatori del conflitto sociale democratico, non è altro che la trasposizione in sede di relazioni industriali della logica “suina” per cui agli elettori è stato sottratto il diritto di votare i propri candidati. Con il beneplacito sostanziale di tutti gli “utilizzatori finali”: la corporazione partitica complessivamente intesa.

Resta solo da chiarire l’apparente mistero dell’allineamento da parte di Cgil alla normalizzazione che azzera i diritti (visto che i vari Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni non hanno fatto altro che assecondare la loro naturale vocazione al ruolo di caporalato del consenso; mentre, più passa il tempo, Emma Marcegaglia assomiglia a quelle donne padane di zigomo forte che, nel secondo dopoguerra, presidiavano a muso duro e doppietta in mano la fabbrichetta di famiglia insidiata dalle maestranze con le loro assurde pretese di una paga che non fosse da fame).

Quella Cgil che ha ormai assunto il volto di Susanna Camusso, che sembra la sorella paffuta dell’altrettanto grassoccio ministro Maurizio Sacconi (e probabilmente lo è in spirito).

Sicché – oltre alla fisiognomica – che cosa accomuna la Camusso e il Sacconi?

Presto detto: l’aver arato per una vita i corridoi dei passi perduti nei Palazzi delle rispettive organizzazioni d’appartenenza, fino a subirne una vera e propria mutazione genetica. Del resto – come insegnava Indiana Jones – “non sono gli anni, sono i chilometri che contano”. Particolarmente se fatti nelle sedi romane del Potere.

C’è chi ha cominciato la propria lunga marcia in via del Corso, sotto la tenda circense di Bettino Craxi, per poi continuare nel caravanserraglio dei miracolati senz’arte né parte che si affolla attorno a palazzo Grazioli. C’è chi invece, come la nostra (Sus)Anna Kuliscioff alla rovescia, ha sempre bazzicato il lugubre palazzo di corso Italia, sede della Confederazione Generale del Lavoro; troppo vicino a via Veneto, luogo iconico delle delizie dolcevitare della Capitale.

Comunque, ambienti in cui è assai facile intossicarsi con le delizie dei privilegi: la macchina blu con autista, gli alberghi a più stelle e i locali esclusivi, le scorte, gli ossequi e via seguitando. Tutti vantaggi che fanno sentire importanti e che producono pericolosa dipendenza. Soprattutto, creano una solidarietà bipartisan tra privilegiati che automaticamente si trasforma in spirito di corporazione, un comune sentire da oligarchi. E – al tempo stesso – induce un immediato fastidio militarizzato nei confronti si chi si azzarda a disturbare il manovratore. Pretesa che deve essere bloccata sul nascere e che, in tempi arroganti come gli attuali, arriva a produrre norme difensive a tutela dell’inviolabilità del comando verticistico.

Disposizioni che saranno narrate come esercizio di responsabilità, come risposta eccezionale a situazioni eccezionali, ma che – in effetti – sono semplicemente dettate dal considerare intollerabili i diritti generali e il controllo democratico.

In tale opera, particolarmente determinate e proterve sono proprio le mezze calzette, che solo la lunga militanza obbediente al Potere per il Potere ha spinto sempre più in alto; allontanandole dalla nuda mediocrità da cui provengono e in cui non intendono ripiombare, costi quello che costi.

In questi giorni l’editore Chiarelettere ripubblica, con la prefazione di Paolo Flores d’Arcais, il saggio cinquecentesco di un amico di Montaigne: il grande quanto dimenticato intellettuale protoilluminista Étienne de La Boétie. Si tratta del Discorso sulla servitù volontaria. Probabilmente il primo esempio di quella critica dei rapporti di dominio su cui si fonda il pensiero liberale correttamente inteso.

Nell’antico testo troviamo un’intuizione che aiuta a capire il motivo per cui il segretario generale di un’organizzazione che si proclama a difesa dei diritti del lavoro può sottoscrivere scelte che li calpestano: il proprio personale potere si difende grazie alla volontà (e alla voluttà) di servire il Potere nella sua forma più astratta e pura.

Forse il motivo per cui – invece – Maurizio Landini e quelli della Fiom non si assoggettano all’andazzo sta anche nel fatto che loro bazzicano molto di più le fabbriche e i colletti blu, tenendosi a distanza di guardia da quei Palazzi che una come la Camusso considera la propria massima aspirazione frequentare. Condividendo con gli altri frequentatori l’esigenza di sottrarli agli sguardi non autorizzati della gente comune. Appunto, per meglio anestetizzarne la pretesa irresponsabile di esprimere la propria opinione.

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