Coopcostruttori poteva essere salvata? È uno dei leitmotiv che girano attorno al maxi processo per bancarotta fraudolenta di uno dei gioielli della “Coop rosse” dell’Emilia-Romagna. Ai vertici nazionali dell’edilizia per anni, l’azienda di Argenta (in provincia di Ferrara) scomparve nel 2003 lasciandosi dietro un buco di oltre un miliardo di euro e con esso i risparmi di migliaia di famiglie di lavoratori e soci prestatori.
Il suo presidente storico, Giovanni Donigaglia, imputato eccellente nel processo che si tiene a Ferrara, ha sempre sostenuto che “l’azienda, fino a un’ora prima dell’entrata in amministrazione era sana”. La procura – e le tante parti civili costituite – non gli ha mai creduto. E anche le indagini della finanza raccontano un’altra storia. Ma accanto al processo giudiziario, in questi anni se ne è tenuto uno morale. Che riguarda i vertici dell’ex Pci e di Legacoop (uscita dalla vicenda in udienza preliminare con il non luogo a procedere), accusati sempre dal’ex patron di “aver abbandonato la cooperativa al suo destino”.
E nell’ultima udienza un testimone di quei tempi sembra dargli ragione. Lui è Giuseppe Maranghi, fratello di Vincenzo, l’ex ad di Mediobanca morto nel 2007. Chiamato a deporre dalla difesa di Donigaglia, l’ex manager che in 50 anni di attività si è specializzato nella gestione di grandi gruppi industriali, da Lanerossi a Marzotto fino a Stefanel, racconta la sua verità.
Una verità scomoda. Che parte dal famoso piano di salvataggio dell’azienda naufragato poi nell’amministrazione straordinaria ex Prodi bis. Ad Argenta Maranghi arriva a fine marzo 2003, chiamato da Cofiri, la finanziaria ex Iri entrata nell’orbita Unicredit con la fusione con Capitalia.
L’allora presidente Gilberto Gabrielli gli fissò un incontro nella sede di Bologna. Ad attenderlo c’erano Donigaglia (che si dimetterà da lì a pochi giorni) ed Egidio Checcoli, presidente di Legacoop provinciale prima e regionale poi. Il suo compito era quello di capire se c’erano prospettive per evitare il fallimento. Lui ne trovò. “Coopcostruttori non era un ammalato leggero – spiega davanti ai giudici -, ma poteva rispondere alle cure”, afferma alla luce di una cartella clinica che presentava 2300 persone occupate, un fatturato nell’anno precedente di 320 miliardi di lire e un portafoglio lavori di un miliardo di euro.
La cura venne individuata da Maranghi in una iniezione rapida di capitali. Prima 40, diventati poi 30. Accanto all’iniezione di liquidi, c’era la proposta di ristrutturazione aziendale: revisione di alcune commesse, ricorso eventuale agli ammortizzatori sociali, dismissione di rami come Cercom, Felisatti e Fornace di Filo. Le banche pronte all’esposizione per il “prestito ponte” c’erano. Almeno così sembrava.
Qui Maranghi ricorda che fine fece l’altro maxi prestito. Quello di 75 milioni di euro dell’estate 2002. È sempre Cofiri la capofila dell’operazione. Si cercano soldi, tanti, per l’azienda in difficoltà. I finanziatori ci sono. Ma mancano le garanzie. E non poteva certo offrirle il malato che si credeva terminale.
La soluzione fu quella di mettere attorno al tavolo della banche (Antonveneta, Carife, Cofiri…) una compagnia di assicurazioni. “Nel piano entrarono così le Generali, che sottoscrissero la polizza fideiussoria per il valore di 75 milioni di euro”. Un maxi finanziamento di cui però “Coopcostruttori ricevette solo le briciole: 46 milioni vennero incamerati da Generali come propria garanzia, circa 16 milioni andarono a Carife per il rientro dei propri investimenti e ridurre la propria esposizione. Gli intermediari vennero coperti d’oro: due o tre milioni andarono ai consulenti che stipularono la polizza e 5 al broker di generali come provvigione per la stipula della polizza”. Alla fine Coopcostruttori avrebbe beneficiato di appena 5 o 6 milioni di euro.
Torniamo alla fine di aprile 2003. Mentre “Checcoli praticamente ogni giorno mi chiedeva come andavano le cose”, si organizza l’incontro salva-Costruttori. Che si terrà a Bologna, presso la sede di Cofiri. Presenti le banche, Checcoli e Giuliano Poletti, presidente nazionale Legacoop.
Il “sostanziale accordo” trovato in precedenza si scontra contro la freddezza di Legacoop. “Le cooperative dovevano camminare con le proprie gambe – mi venne riferito – e quell’atteggiamento finì per fare irrigidire gli istituti di credito”.
Lo stesso messaggio sarebbe arrivato da Giovanni Consorte: “ci misi un po’ per incontrarlo e in quell’occasione spesi il nome di mio fratello; in vista dell’amministrazione straordinaria, gli chiesi di esplorare le possibilità di un concordato”. “Ognuno ha i suoi problemi – fu la risposta – e se si interviene per uno poi lo si deve fare per tutti”.
Di lì al fallimento il passo fu breve.