Dunque succede questo: mi chiama Fabio Di Iorio – amico, autore televisivo – in questo momento impegnato nella piccola impresa estiva di Fratelli e sorelle d’Italia su La7. Mi fa: “Ma tu verresti a fare un monologhetto tratto dal capitolo che, nel libro che hai scritto sulla fine del Pci, hai dedicato al meccanico di Berlinguer, Mario Benedetti?”. Lì per lì gli ho chiesto se non fosse pazzo. Non perché non tenessi al mio libro (e al monologo che ne ho tratto portandolo in giro per l’Italia), non perché non credessi nella storia di Mario (che considero un’eroe dell’Italia civile). Ma perché mi chiedevo come si potesse comprimere un frammento di Italia così antitelevisivo e complesso nei tempi di un programma che ha una forte struttura comica. E come si potesse reggere il confronto fra le narrazioni dei comici di professione, e dei loro numeri che sono tarati per far ridere, e la storia del rapporto fra Mario, il meccanico di Corso Francia, e il segretario del “più grande partito comunista d’Occidente”. Una storia che per me aveva dei tratti quasi poetici, ma che apparteneva alla memoria di un’altra Italia.
Fabio è un temerario e mi risponde: “Di questo non ti preoccupare, lascia fare a me. Se ti allunghi taglio”. Ci siamo ritrovati nel teatro di posa di Cinecittà dove si registrava il programma: solo Fabio poteva mettere insieme una compagnia di giro in cui oltre al sottoscritto c’erano Riccardo Rossi (che ha recitato un monologo sublime sul rapporto con Alberto Sordi spalmato in venti anni), Pietrangelo Buttafuoco, con un intervento molto alto sulla controstoria d’Italia (deve andare ancora in onda), il carisma magnetico di Ascanio Celestini (e i suoi meravigliosi apologi sull’Italia del piccolo sovrano). C’era la grandissima Laura De Marchi (non so se avete visto mai la sua “operaia Elda”, sublime maschera chapliniana dell’Italia che lavora), e c’era un sorprendente Paolo Villaggio che doveva intervenire per dieci minuti e alla fine ha parlato per 35 (lanciando a Veronica Pivetti, che conduceva, continui tormentoni sul suo primo marito). La cosa più bella non erano le sue battute, ma un racconto molto vivido sulla liberazione di Genova, vista con occhi di ragazzo. Mi sono detto: sono tutti pazzi.
Nei corridoi e nei camerini grande clima da commedia dell’arte. Siamo entrati alle cinque, siamo usciti all’una di notte. Ma mi sono sentito meno fuor d’acqua di quanto non pensassi. Tutti i tempi dei mattatori sul palco erano costruiti per rompere la dittatura del metronomo imposta dalla lingua di Zelig, all’insegna del “dentro un altro” e “cinque minuti poi lo spot”. Qualcuno strappava la risata, qualcun altro faceva sorridere amaro. Qualcuno commuoveva, qualcuno faceva incazzare. Quando la puntata, che era stata registrata prima, è stata vista dai responsabili de La7 qualcuno ha obiettato: “Ma non sarà una cosa troppo complicata e rischiosa, in piena estate, quando la gente torna dal mare?”. Insomma, ero curioso due volte. Per l’esperimento coraggioso del programma, e per il riscontro che avrebbe avuto la storia di Mario, messa al fianco dei grandi mostri della comicità.
Ebbene, ieri il programma ha fatto il botto: 5,17 % di share, grande successo di critica e tante mail di persone che mi hanno detto di essere state felici di questo ricordo di Berlinguer, visto attraverso gli occhi di Mario. Così aggiungo due cose: chi va in Corso Francia, a Roma, proprio dietro il McDonald’s (che lo vorrebbe cacciare per allargare il locale), Mario lo trova lì, con la sua officina, e la sua carica di umanità. Secondo: anche rivedendosi, si impara qualcosa. Ho pensato che Mario ed Enrico, poi, non erano così alieni, in quel contenitore di storie: oggi, con le loro storie diverse, comuniste e parallele, possono dire ancora molto. Come si potrebbe dire per spiegarlo a Brunetta: l’Italia migliore.