Rassegnamoci: siamo incapaci di raccontare il No Tav.
Perché oggi non solo i media tradizionali ma anche siti internet di testate prestigiose non sanno proprio come maneggiarlo, un movimento come il No Tav, che esiste, vive, produce dissenso e proposte alternative e costruisce socialità da più di vent’anni. Un movimento che nasce spontaneamente con una serie di assemblee pubbliche fin dai primi anni Novanta.
Oh, sì, certo. Potremmo fare delle straordinarie cronache della giornata di ieri, per raccontare il No Tav. E avremmo fallito, perché per comprendere un singolo evento occorre conoscere le premesse, approfondire, sviscerare.
Il flusso della comunicazione televisiva non lo sa più fare – ammesso che abbia mai saputo farlo – o, piuttosto, non vuole. Perché la rappresentazione binaria della realtà, i buoni e i cattivi, i cowboy e gli indiani, è più semplice da realizzare e da far digerire al popolino. Ed è un’operazione fortemente sistemica. Che proviene da quegli stessi che parlano di “primavere” quando le ribellioni violente avvengono altrove.
Il flusso della comunicazione su internet, quello mainstream, deve fare i click. E allora fa la cronaca in diretta del corteo e degli scontri.
Il flusso della comunicazione politica si deve per forza imbastire di retorica trasversale. Si deve trincerare dietro le “ferme condanne” – che fanno anche un po’ sorridere, e ricordano, per dire, la “viva e vibrante soddisfazione“ che Maurizio Crozza mette in bocca al presidente della Repubblica quando lo imita – e dietro “l’isolamento dei violenti”, con un’ipocrisia rara, perché, evidentemente c’è violenza e violenza, per costoro. Altrimenti non si spiega come mai, periodicamente, ci sia chi – fra quelli che condannano i No Tav nelle loro “frange violente” – si spinga a giustificare questa o quella azione di guerra qui o là nel mondo; non prenda posizione contro le violenze di stato; si dimentichi le lotte contro la militarizzazione del territorio. E via dicendo.
Violenza. Forse andrebbe ridefinito il termine, perché usato così, be’, fa parte della neolingua che riduce il pensiero a poche categorie che stracciano ogni tentativo di costruirsi un pensiero critico. E fa specie anche leggere che qualcuno si metta a individuare i presunti “mandanti morali”, parlando a sproposito. Esattamente come fa specie che arrivino leader populisti a cavalcare un movimento popolare. O che si usino ovunque parole chiave che non si vedeva l’ora di rispolverare, esattamente come accadde dopo i fatti di Genova: frange eversive, black bloc, realtà antagoniste, bombe carta, centri sociali radicali, guerriglia e via dicendo.
Così diventerà una fatica immane, dopo questo bombardamento mediatico, ricominciare a raccontare il No Tav.
Il punto è che, ogni volta che si parla del No Tav, bisognerebbe raccontare come e perché si è arrivati al 3 luglio 2011. E non c’è il tempo di farlo, pare. Né la volontà. Comunicazione e politica rimangono slegate dalla realtà e dimenticano che No Tav è molto più della giornata del 3 luglio 2011.
Fabrizio Tassi ha riassunto in maniera splendida il vademecum dei fautori del sì ad ogni costo e le banali – ahimé, banalissime – ragioni dei fautori del no.
Su Twitter, ieri, il flusso di notizie con la tag #notav – nota per gli appassionati e gli addetti ai lavori: accadeva anche con la tag #saldi, ricercatissima per altre motivazioni, molto meno sociali, grazie a un “dirottamento di tag” ideato dai Wu Ming – arrivava puntuale, ovviamente anche con commenti e dissensi rispetto ai fatti che accadevano. Ma era un flusso per addetti ai lavori. Per persone che, come base, hanno le 150 ragioni del No. Sistematicamente ignorate da chi deve semplicemente smontare il movimento agli occhi di tutti gli altri, quelli che non lo vivono e non lo conoscono.
E allora, visto che sul web possiamo anche prenderci del tempo, ecco che vale la pena di riproporre ancora una volta un video girato il 1° luglio 2011. In cui un’attivista No Tav spiega alle forze dell’ordine – e a tutti noi – le ragioni del No Tav.