Una guerra senza quartiere, che è già sconfinata nella pulizia etnica e che ha generato un’emergenza umanitaria: è quanto sta accadendo da circa un mese nel nord del Myanmar, nello stato Kachin, uno dei 14 fra stati e divisioni in cui è ripartita l’ex Birmania. Il nuovo governo “civile” – insediatosi dopo le elezioni-farsa del dicembre scorso, che hanno visto la giunta militare al potere passare la mano – ha deciso di ripartire da qui: da una guerra e da una repressione indiscriminata sulle minoranze etniche, che costituiscono il 30 per cento della popolazione del Myanmar.
Oggi nel mirino è il popolo kachin, circa un milione di persone insediate nel nord del paese, ma già si preparano azioni militari verso le popolazioni di etnia karen, shan, mon. La stabilità e lo sviluppo promessi dal nuovo governo di Thein Sein (oggi presidente, ieri generale), nel suo discorso inaugurale dell’aprile scorso, sembrano mera utopia: se il governo non scenderà a patti con le minoranze etniche (una politica attuata in passato), il paese potrebbe sprofondare in una guerra civile di ampie dimensioni, con severe conseguenze per tutta la nazione e, sostengono gli analisti, anche per le nazioni confinanti, che già sopportano il peso di migliaia di profughi. Un fattore di instabilità per tutto il Sudest asiatico, dunque.
I profughi kachin sono già 20mila e il loro futuro è incerto: lasciano le zone dei combattimenti di una guerra asimmetrica, che vede fronteggiarsi l’esercito birmano – con ingenti uomini e mezzi, artiglieria e mortai – e gruppi di guerriglieri del “Kachin Independent Army” dispersi nella foresta equatoriale: soldati che “combattono in casa” e che, pur in situazione di manifesta inferiorità, sarà difficile stanare.
Intanto vecchi, donne e bambini kachin lasciano i villaggi per trasferirsi in città più sicure come Leiza o Myitkyina. Oppure varcano il confine e si rifugiano in India e in Cina. E mentre circolano le prime notizie di morti per fame e malattie, l’esercito regolare, come è nella tradizione della guerra alle minoranze, non risparmia violenze, abusi, stupri, massacri indiscriminati dei civili, accusati di essere collaborazionisti dei ribelli, con metodi che gli osservatori non esitano a definire “da pulizia etnica”. I kachin, fra l’altro sono in maggioranza cristiani e sono le Ong cristiane come la Caritas locale (unica a disporre di volontari sul posto) o “Christian Solidarity Worldwide” e “Jesuit refugees Service” (con base nei paesi limitrofi) ad abbozzare i primi piani di interventi umanitari.
Va detto che quella delle minoranze etniche è una spina nel fianco per la nazione fina dall’indipendenza della Birmania nel 1949. Le rivendicazioni di maggiore autonomia o di uno stato federale hanno trovato, in sessant’anni di conflitti e negoziati, ben poco spazio politico. Oggi i leader delle minoranze riportano sul tavolo l’accordo di Panglong, siglato nel 1947, che di fatto permise la nascita dell’odierna Birmania in quanto garantiva “piena autonomia e amministrazione interna” alle aree frontaliere. Nei decenni passati la giunta militare ha utilizzato la politica della “carota e bastone”: da un lato ha lanciato una violenta repressione; dall’altro ha cercato di integrare le milizie delle minoranze etniche nell’esercito nazionale, dando loro lo status di “Guardie di confine”. Pur se a fasi alterne, questa strategia aveva dato frutti: nello stato kachin, ad esempio, vigeva un cessate-il-fuoco che risaliva al 1994.
Quello che è cambiato negli ultimi anni – ed è il fattore destinato a riaccendere i conflitti – è la politica del governo centrale, che ha avviato un vasto piano di progetti di sviluppo e grandi interventi infrastrutturali nei territori di confine, grazie ad accordi con imprese multinazionali. Il piano, che mira a sfruttare le risorse naturali, a incentivare il turismo e l’industria, è destinato ad avere un forte impatto sui territori abitati dalle minoranze etniche, in termini di insediamenti umani e di modifiche del territorio. Il casus belli per scatenare la guerra ai kachin è stata, di fatti, la costruzione di una diga e di una centrale idroelettrica che sommergerebbe villaggi e terreni, per fornire energia alla popolazione cinese oltre confine. Il popolo kachin si è opposto, ma il governo ha tirato dritto: di qui l’escalation, incentivata dai “falchi” fra i leader militari birmani. Esistono altri progetti del genere, in alte zone del paese, e le minoranze dovranno farsene una ragione, nota il governo di Yangon. Le maniere forti, però, potrebbero essere controproducenti e mettere a soqquadro una intera regione, quella dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico). Per questo la pressione internazionale (Onu e Usa in prims) aumenta, cercando spiragli per un cessate-il-fuoco e un negoziato. I civili kachin ne sarebbero ben felici.
di Sonny Evangelista – Lettera 22